11 novembre 2022 - Filosofiamo    No Comments

Il futuro è nel presente

 

La libertà come conquista morale.

Oggi più che mai il tema della libertà è al centro del dibattito contemporaneo e da luogo a contrapposizioni ideologiche, determinando la crisi della stessa democrazia. Tornando a riflettere su cosa il passato può suggerire a tutti noi per chiarire cosa si debba intendere per libertà, nel rispetto dei diritti di ogni persona, naturalmente mi viene da prendere in considerazione gli eventi che hanno caratterizzato le vicende politiche e culturali del XVII secolo in Europa. In particolar modo, sul piano filosofico politico e dello sviluppo del dibattito del giusnaturalismo seicentesco che si venne a delineare, emergono con forza alcuni protagonisti del dibattito culturale del tempo come Hobbes (1588 – 1679) e Spinoza (1632 – 1677). Nonostante che le circostanze in cui questi due pensatori ebbero modo di dare il proprio contributo siano state  diverse,   possiamo tranquillamente cogliere come ognuno abbia cercato di precisare su quali presupposti il suddito/cittadino possa realizzare la propria libertà. A questo proposito mi piace prendere in considerazione quanto Ken Follett viene a presentarci, a conclusione del suo romanzo “La colonna di fuoco”, nel dialogo tra il protagonista della storia ed il nipote Jack:

Chiedendosi cosa fosse stato a svegliarlo, alzò gli occhi e vide un giovane con i riccioli scuri di Margery: suo nipote Jack, il figlio di Roger. Sorrise. Jack era come Margery anche sotto altri aspetti: bello, affascinante e battagliero, e fin troppo serio in fatto di religione. Il suo estremismo era andato nella direzione opposta di Margery e lui era una specie di puritano. Questo causava litigate furibonde con il suo pragmatico padre. Jack aveva ventisette anni e non era sposato. Sorprendendo tutti, aveva scelto di fare il costruttore, e aveva fatto fortuna. C’erano stati grandi costruttori nel passato della famiglia: di nuovo somiglianze tramandate, forse. Ora si sedette di fronte a Ned e gli disse:

“Ho una notizia importante, nonno. Parto”.

“Perché? Hai un’attività che prospera qui a Kingsbridge.”

“Il re rende la vita difficile a quelli di noi che prendono sul serio gli insegnamenti della Bibbia.”

Ciò che intendeva era che lui e i suoi amici puritani erano in ostinato disaccordo con la Chiesa anglicana su molti punti dottrinali, e il re Giacomo era intollerante con loro come lo era con i cattolici.

“Mi dispiacerà molto vederti partire, Jack” disse Ned. “Mi ricordi tua nonna.”

“Anche a me dispiacerà dirvi addio. Ma noi vogliamo vivere in un luogo dove possiamo fare il volere di Dio senza interferenze.”

“Ho passato la mia vita cercando di fare dell’Inghilterra un posto così.”

Ma non lo è, vero?”

“È più tollerante di molti altri posti, per quel che ne so io. Dove vorresti andare in cerca di maggiore libertà?”

“Nel Nuovo Mondo.”

“Corpo di Cristo!” Ned era sconvolto. «Non credevo che andassi così lontano. Scusa per l’imprecazione, mi hai sorpreso.”

Jack annuì per accettare le sue scuse. Disapprovava quasi come i cattolici le esclamazioni blasfeme che Ned aveva imparato dalla regina Elisabetta, ma non lo fece pesare troppo. “Un gruppo di noi ha deciso di andare nel Nuovo Mondo e di avviare una colonia là.”

“Che avventura! È il genere di cosa che a tua nonna Margery sarebbe piaciuto molto fare.” Ned provò invidia per la gioventù e il coraggio di Jack. Lui non avrebbe più viaggiato. Per fortuna aveva tanti ricordi… di Calais, di Parigi, di Anversa. Si rammentava ogni dettaglio di quei viaggi, anche se non ricordava che giorno della settimana fosse.

Jack stava dicendo: “Anche se in teoria Giacomo continuerà a essere il nostro re, speriamo che si interesserà meno di come decidiamo di praticare, dato che gli sarà impossibile far rispettare le leggi a una tale distanza”.

“Direi che hai ragione. Ti auguro ogni bene.”

“Pregate per noi, per favore.”

“Lo farò. Dimmi il nome della tua nave, così posso chiedere a Dio di vegliare su di lei.”

«Si chiama Mayflower.”

“La Mayflower. Devo cercare di ricordarmelo.”

Jack si avvicinò allo scrittoio. “Lo annoto per voi. Desidero che ci ricordiate nelle vostre preghiere.”

“Grazie.” Era strano e commovente che Jack ci tenesse tanto alle preghiere di Ned.

Jack scrisse il nome su un foglietto di carta, poi posò la penna. “Adesso devo lasciarvi… ho tantissime cose da fare.”

(Follett Ken La colonna di fuoco – Ed. Mondadori pag. 457 – 458)

Quello che emerge dal dialogo è il bisogno di libertà che anima il giovane Jack ed ha da sempre animato il protagonista del racconto Ned, un bisogno che da sempre contraddistingue la storia delle vicende umane e che, man mano, ha assunto la maschera della religione, dell’ideologia politica come anche quella della rivendicazione del diritto ad una vita dignitosa, mettendo a rischio eventualmente la propria vita nell’intraprendere viaggi ricchi di imprevisti di ogni sorta.

 

Una riflessione sul rapporto cittadino Stato nella concezione di Hobbes.

Nel corso del sedicesimo e del diciassettesimo secolo si è giunti al compimento di quel processo storico che ha fondato lo Stato moderno, riassumibile nella famosa tesi di Luigi XIV “Lo stato sono io”. Questa tesi sintetizza la specificità dello Stato assoluto che verrà meno nella seconda metà del secolo XVIII. In Inghilterra, tra 1642 ed il 1649, si assiste ad uno scontro tra il parlamento e la corona, dando luogo ad una spaventosa guerra civile, che si concluderà con il processo e la condanna a morte per alto tradimento nei confronti del popolo inglese di, Carlo I Stuart e l’ascesa al potere di Oliver Cromwell. Il mutamento istituzionale, dalla morte di Carlo I Stuart alla restaurazione del 1660, evidenziò come solo un governo che avesse avuto davanti a sé un tempo sufficiente e che avesse adottato un modo di agire abbastanza autoritario, sarebbe stato in grado di creare le condizioni di consolidamento e rinvigorimento della nazione. Per questo, all’interno di un quadro sociale caratterizzato da una volontà di innovare, che aveva fatto nascere continuamente richieste e attese di ulteriori cambiamenti, determinò un disorientamento sociale, che impose un’inevitabile riflessione, i cui presupposti emergono dal Leviatano di Hobbes (1651), cioè una valutazione ed un ragionamento sul rapporto tra sovrano e sudditi, nei termini di razionalità ed irrazionalità,  che si imponeva come necessaria in conseguenza al libero dibattito che era emerso durante l’interre­gno e che aveva favorito il formarsi di un gran numero di idee nuove sull’organizzazione della società in tutti i suoi aspetti, idee che non erano facilmente conciliabili. A questo proposito, nel Leviatano di Hobbes è possibile individuare e precisare il concetto di razionalità nei termini di principio dell’azione individuale e con l’insieme di scelte possibili che il suddito può realizzare mediante la sua azione tanto nello stato di natura quanto nello stato civile. Quello che è interessante nel ragionamento hobbesiano è il fatto che per Hobbes lo stato di natura non indica un tempo storico preciso, ma è di fatto un’ipotesi da prendere in considerazione per comprendere la necessaria ragionevolezza dello stato civile, cioè la necessità di un potere forte che imponga il rispetto delle leggi a garanzia dell’integrità del corpo sociale e, quindi, dello Stato. In questo senso la restaurazione dello stato monarchico, dopo la morte di Oliver Cromwell, ha coinciso con l’affermazione di un potere autoritario che, per mediare le diverse fazioni politico-religiose, venne a decretare una politica di tolleranza, finalizzata a mediare gli inevitabili conflitti, per poi giungere a decidere la soluzione più opportuna, che il sovrano, detentore dell’autorità per volere divino, veniva necessariamente ad imporre. Per questo, secondo Hobbes, l’azione “non razionale” è distinguibile da quella “razionale” per il fatto di non essere coerente con il conseguimento dello scopo di soddisfazione stabile dei desideri del singolo e, più in generale, con il principio di conservazione, nel senso che  la riduzione del principio delle azioni umane alla ricerca dell’utile soggettivo conduce inevitabilmente ad una raffigurazione dell’ordine sociale, in cui l’interesse del singolo viene ragionevolmente negato per affermare  la necessaria autorità assoluta dello Stato. Il breve esame della tesi hobbesiana sulla necessità di un potere autoritario in una fase storica propria di una “società liquida” ci induce inevitabilmente a prendere in considerazione la proposta spinoziana sullo Stato, che pur partendo da una concezione della natura umana condivisa dallo stesso Hobbes, giunge a delineare una società fondata sulla libertà.

 

La tesi di Spinoza.

Come Hobbes, anche Spinoza parte dalla narrazione di un ipotetico stato di natura, stato di natura nel quale il diritto di ciascun uomo necessariamente coincide con la sua autorevolezza, nella misura in cui dalla natura ogni essere riceve tanto diritto quanta è la sua forza di esistenza e di azione. Ogni uomo è quindi oggetto di un diritto altrui finché è sotto il potere di altri, ed è nel pro­prio diritto quando può respingere ogni violenza, vendicare il danno che gli è stato fatto e vivere come gli pare. Ma questa condizione determina uno stato di “guerra di tutti contro tutti”, per cui come afferma Hobbes nel Leviatano, nello stato di natura il singolo individuo non può difendersi da solo e in cui, conseguentemente, il suo diritto naturale su tutto è semplicemente immaginario. Se inoltre si considera che gli uomini non possono provvedere del tutto ai propri bisogni, inevitabilmente si rende necessaria l’istituzione di un governo. Infatti, senza un aiuto reciproco, appare chiaro che nella condizione di precarietà che caratte­rizza lo stato di natura gli uomini sono spinti a cercare un comune accordo per una pacifica convivenza. E poiché quanti più persone si associano, tanto più cresce la loro autorità, quindi il loro diritto, dalla loro associazione deriva un diritto più forte, che appartiene a ciò che si chiama governo. Per questo il sorgere di un diritto comune, fondamentale all’istituzione di un governo, fa fiorire naturalmente le valutazioni morali, che si giustificano solo nell’ambito di una comunità organizzata, mentre non hanno senso al di fuori di essa. La giustizia e l’ingiustizia nascono conseguentemente come esito del diritto comune. Infatti come ogni individuo nello stato naturale, allo stesso modo lo Stato che nasce dal comune accordo tra gli uomini ha nei confronti dei singoli tanto diritto quant’è la sua autorità. Il diritto dello Stato limita quindi il potere dell’individuo, ma non annulla il suo diritto naturale e i vantaggi dello stato civile sono tali per cui conviene ragionevolmente a ciascuno di sottomettersi alle sue regole. Spinoza ritiene che, come ogni cosa naturale, anche lo Stato non può esistere e conservarsi se non si conforma alle leggi della propria natura: lo Stato è soggetto a leggi nello stesso modo in cui è sottomesso l’uomo nello stato naturale, per cui è obbligato a non distruggere se stesso. Come per il singolo, anche per lo Stato la regola migliore sarà dunque quella di fondar­si sui precetti della ragione, che sono i soli che possano garantire la sua conservazione. E poiché i fini dello Stato sono la pace e la sicurezza della vita, così la legge fondamen­tale che limita l’azione dello Stato deriva da questa sua intrinseca finalità, senza la qua­le esso viene meno alla sua stessa natura, cioè allo scopo per il quale è sorto: l’autentico fine dello Stato, secondo Spinoza, è quello di garantire ai singoli l’esercizio della libertà, proprio come la libertà è il fine ultimo del percorso conoscitivo e morale dell’uomo. La libertà tutelata dallo Stato comprende sia la libertà di fede sia, più in generale, la libertà del pensiero e, dunque, della ricerca filosofica. In qualsiasi comunità politica, infatti, l’uomo conserva una parte dei suoi diritti, e il diritto meno trasferibile è proprio la facoltà di pensare e di giudicare liberamente. Su questa facoltà non è possibile alcuna forma di costrizione, in quanto, come lo stesso Hobbes afferma in merito alla sfera privata del suddito, i governi possono tenere a freno anche la lin­gua degli uomini, ma non il loro pensiero.

 

Una prospettiva carica di speranza.

Come ho già avuto modo di scrivere:

“essendo giunto ad un’età per cui mi trovo ad essere pensionato e, guardandomi intorno, inevitabilmente sono indotto a percepire la grave crisi del paese, per cui spontaneamente mi è sorta la domanda, come posso non essere un ingombro, nonostante l’età non più giovanissima, bensì possa essere una possibile risorsa per le nuove generazioni?” (Prof. Alfio Profeti “Le briciole di Pollicino” – Cap. 10, Il diritto fonda Il potere o il diritto legalizza il potere)

Ho cercato, attraverso i precedenti capitoli, di indicare dei momenti di riflessione per stimolare quella riflessione che permetta di orizzontare e favorire la capacità di orientamento col fine di non perdere la strada, quel percorso che faciliti la possibilità di ritrovare il senso di appartenenza, attraverso quella capacità creativa, che per secoli ha contraddistinto il nostro paese, ma che ancora è necessaria per porre le basi di un futuro di democrazia e di prosperità. Ho avuto modo, sia durante la mia professione di insegnante di Filosofia e Scienze Umane, sia in questo periodo, di confrontarmi con alcuni giovani ed ho verificato come l’appello di Calamandrei agli studenti milanesi del Gennaio 1955 sia presente in molti ragazzi. In particolar modo ho avuto la possibilità di rendermi conto come l’importanza della nostra carta costituzionale costituisca motivo di apprensione in quanto si avverte la sensazione che gran parte degli articoli costituzionali siano ancora oggi disattesi. Infatti i movimenti giovanili a favore di un cambiamento del modello economico dominante, premessa per contenere gli effetti del cambiamento climatico del nostro pianeta, come le recenti manifestazioni a favore della pace tra Federazione Russa ed Ucraina, fanno sempre più avvertire l’urgenza di affrontare e risolvere la grave crisi climatica che è tangibile anche nel nostro paese. Tutto questo mi induce a ritenere che quando Edgar Morin, in una recente intervista afferma:

“Tutto ciò che si gioca nell’ambito dell’economia, della politica, dell’azione, della società si gioca fondamentalmente e preliminarmente nella mente umana. […] Per questo necessariamente si deve porre in essere una riforma educativa, “una rivoluzione paradigmatica”, volta a realizzare una politica dell’umanità che abbia come scopo quello di perseguire e sviluppare il processo di umanizzazione, inteso come miglioramento delle relazioni fra gli esseri umani, fra le società umane e fra gli uomini e il loro pianeta.”

In tal senso Morin evidenzia l’importanza dell’azione educativa della scuola, che, facendo leva sull’azione creativa dei docenti come dei giovani, possa perseguire lo scopo di promuovere l’opera di umanizzazione di cui il genere umano sempre più ha bisogno, dove, facendo leva sulla capacità creativa delle nuove generazioni, si possa a confidare sulla categoria dell’improbabile.

 

Prof. Alfio Profeti

 

 

 

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