19 giugno 2015 - APPUNTI, Filosofiamo    No Comments

Scheda ragionata SU SOREN KIERKEGAARD (Copenhagen 1813-1855)

 Scheda ragionata SU SOREN KIERKEGAARD (Copenhagen 1813-1855)

Opere rilevanti da ricordare: “Aut-aut” (di cui fa parte “Diario di un seduttore”, 1843); “Timore e tremore” (1843); “Il concetto dell’angoscia” (1844); “La malattia mortale” (1849).

Perché una filosofia contro Hegel?

La filosofia di Kierkegaard, riscoperta ed apprezzata nel Novecento, si contrappone alle certezze propagandate dall’idealismo, evidenziando la centralità dell’uomo singolo contro lo Spirito universale; l’importanza dell’esistenza contro la ragione; le concrete alternative conflittuali della vita contro la sintesi dialettica risolutrice di ogni contraddizione; la libertà come totale possibilità contro la libertà come ordinata necessità. Per Kierkegaard è l’esistenza che rappresenta la concretezza della realtà, per cui le scelte di ogni singolo individuo sono simbolo di libertà contro ogni determinismo. l’uomo è incessantemente costretto ad operare delle “scelte”; egli si trova solo di fronte ad esse e ciascuna rappresenta un salto nel vuoto, perché, scegliendo, il singolo individuo assume un ruolo e rinuncia a tutte le altre possibilità di esistenza. Ogni scelta è sempre accompagnata da un sentimento di angoscia, in quanto l’uomo non saprà mai se ha fatto la scelta giusta. In tal senso Kierkegaard pone l’attenzione sulla dimensione della vita dell’individuo: in particolare sul rapporto essenza/esistenza. Per Kierkegaard il limite del sistema hegeliano è quello di trascurare l’esistenza concreta: l’uomo è semmai perennemente angosciato dalla scelta e, vivendo nella dimensione dell’esistenza, non ha alcun riferimento rassicurante in senso oggettivo o universale. Secondo Hegel, l’uomo non è altro che un “anello” necessario del divenire dello Spirito, cioè un momento dello sviluppo della razionalità nel mondo e del ritorno dello Spirito a sé. Invece, secondo Kierkegaard, la filosofia deve adottare un altro punto di vista: quello del singolo ed assumerlo come proprio oggetto. E’ a partire dal singolo come categoria che la realtà dev’essere veramente colta ed interpretata. La vita dell’uomo è possibilità, che implica il rischio, cioè la responsabilità della scelta. Per questo il termine fondamentale della riflessione di Kierkegaard è la parola “possibilità”: l’uomo è continua e infinita possibilità. Di qui l’”angoscia”: in noi abita sempre il presentimento, la minaccia del nulla. Se siamo possibilità sempre aperta, per noi non ci sarà un’unica possibilità di autorealizzazione. In tal senso la filosofia è lo sforzo di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all’uomo, ovvero quegli stadi della vita che costituiscono le principali alternative dell’esistenza, tra le quali l’individuo è chiamato a scegliere.

 

Cosa si intende per verità soggettiva?

Il compito affrontato da Kierkegaard riguarda il passaggio dal campo della “verità oggettiva” a quello della “verità soggettiva”, dove per soggettivo si intende non un attributo relativistico, bensì l’indicazione di un’appropriazione della verità in termini esistenziali, ossia la “verità per me” o il “come” della verità. Per questo Kierkegaard va contro Hegel:la Ragione Assolutaassorbe e dissolve l’uomo “singolo”. Secondo Kierkegaardla Veritàè tale solo quando lo è “per me”: essa non è un oggetto, ma il cammino con cui ogni singolo uomo vi giunge. In gioco non è una verità oggettiva, ma la “mia verità esistenziale”: il singolo uomo è superiore al suo genere (ossia all’umanità), l’individuo ha più senso del tutto (cioè dell’intera realtà nella sua totalità), nel quale Hegel aveva invece preteso di comprenderlo e quindi di giustificarlo. Hegel in tal modo ha edificato il suo sistema filosofico, rimuovendo il carattere antropologico dei propri dati, cioè ha tentato di raggiungere un punto di vista assoluto e infinito, astraendo da ogni connotazione finita, ivi compresa la finitezza dell’uomo.

 

La categoria della “possibilità” e la dialettica di una scelta inconciliabile.

In “Aut-aut”, firmato con pseudonimi, Kierkegaard descrive i primi due stadi fondamentali della vita: si tratta di due alternative inconciliabili (da cui appunto aut-aut, che implica “o una o l’altra” scelta).

La prima scelta di vita è chiamata “vita estetica”, la vita di chi si sente realizzato solo nell’attimo piacevole che fugge ed è continuamente inseguito: è il poeta o l’artista, che coglie il senso di tutto in singoli momenti eccezionali della sua esistenza, che esclude dal suo orizzonte ogni ripetizione (tutto deve essere sempre nuovo), che cerca l’interessante, la continua varietà e l’appagamento misurato, come il seduttore (il seduttore, in Aut-aut è Giovanni, accanto al quale Kierkegaard porta come esempio le figure di don Giovanni e Faust). Il limite di questa vita sta nello spettro della “noia”. Chiunque vive esteticamente, secondo Kierkegaard, è “disperato”, perché cerca sempre e solo un’alternativa possibile, non percepisce nulla di continuativo, di solido.

Chi se ne rende conto però si rende protagonista di un “salto” nell’altra forma di vita, cioè la condizione della “vita etica” (come il giudice Wilhelm, altro protagonista di “Aut-Aut”).

Per porre fine alla non appagante ed incessante ricerca, fondata sulla continua “non-scelta”, caratteristica propria della vita estetica, si dovrebbe scegliere la disperazione, cioè guardare dentro l’abisso dell’angoscia. Invece con la vita etica l’uomo sceglie di affermare la propria libertà, sceglie un modo di vita non eccezionale, ma universale, normale. Per Kierkegaard espressioni dell’eticità sono il matrimonio e il lavoro, o l’amicizia. Questi, se scelti, costituiscono una modalità di vita in cui l’uomo “sceglie di scegliere”, sceglie cioè la propria libertà di scegliere. Sceglie se stesso attraverso un compito a cui rimanere fedele. Così facendo l’uomo sceglie tutto della propria storia, della quale decide di abbracciare tutti gli aspetti, belli e brutti. La vita etica è dunque fondamentalmente consapevolezza della pochezza umana e per questo è il punto di partenza per un nuovo salto, verso la “vita religiosa”. Solo in Dio in realtà ogni parte dinoi ha un senso pieno.

In “Timore e tremore”, Kierkegaard narra della storia di Abramo che, sempre devoto ed ubbidiente alla legge morale, riceve da Dio l’ordine di uccidere il figlio Isacco e, così facendo, di infrangere la legge stessa. Kierkegaard coglie in questa vicenda l’abisso tra il comando divino e la legge morale umana: sono due principi opposti e non conciliabili. La “fede” è una relazione privata tra l’uomo e Dio, in cui l’uomo è necessariamente solo. Ma che cosa è la fede se non la certezza dell’angoscia? La certezza di un salto nel buio? L’uomo prega di essere aiutato nella fede, ma la preghiera è già un segno della fede: la fede è “contraddizione”. Kierkegaard trova in Cristo il segno del paradosso: vive e soffre come uomo mentre parla e agisce come Dio.

In “Il concetto dell’angoscia” e ne “La malattia mortale”, Kierkegaard approfondisce il tema della possibilità infinita e dell’angoscia: Abramo, di fronte all’ordine divino, si trova a fare i conti con la propria libertà, con la possibilità di potere e nello stesso tempo con il non sapere che cosa fare, la sua innocente ignoranza (questo è il peccato originale). L’angoscia è il timore di qualcosa che non si sa cosa sia, è paura senza oggetto: è consapevolezza di essere liberi ma anche di essere finiti, limitati. Posso fare; ma se faccio, posso sbagliare.

 

L’angoscia come condizione fondamentale dell’’uomo.

Se tutto è possibile, infinite sono le possibilità sfavorevoli: l’angoscia è la condizione fondamentale dell’uomo nel mondo, degli infiniti fatti, legami, situazioni che lo attendono. Quando l’uomo guarda dentro di sé, chiama questa angoscia con il nome di “disperazione”: io voglio essere me stesso? Oppure non lo voglio? Se “mi voglio”, mi scoprirò essere finito, insufficiente a me stesso; se “non mi voglio”, se rifiuto il rapporto con me, rifiuto me stesso, e questo è impossibile da realizzare. In ogni caso vi è disperazione: essa è la “malattia mortale”, non perché conduce alla morte, ma perché in essa io vivo la “morte dell’Io”, cercando (nel volermi o nel non volermi) di negare le infinite mie possibilità.

La possibilità di aggirare la disperazione è il tentativo dell’esteta, che cerca il senso nella continua “evasione”: “mi voglio” in continue possibilità diverse. Ma così la disperazione viene solo anestetizzata e l’io diventa un “miraggio”, in cui ancora nessun confine è certo. D’altro canto l’uomo ha bisogno della possibilità: nel non volermi nego le possibilità, che sono proprio ciò che mi costituisce. Nella scelta etica, invece, la disperazione viene scelta in se stessa: l’uomo accetta il suo essere infinite possibilità. La scelta etica è la via per la vita religiosa. Solo in Dio infatti “tutto è possibile”.

 

La categoria esistenziale della scelta.

Nelle forme che sono date alla singolarità umana nel suo esistere, ogni uomo è sempre nella situazione che esige una scelta. E’ così che la categoria della scelta presiede ai diversi stadi dell’esistenza, che Kierkegaard indica nella sequenza: estetica, etica, religione.

Nella scelta dell’esteta, siamo nella contraddizione di chi sceglie di non scegliere, di chi vive restando nella pura possibilità, così come esemplarmente si comporta il don Giovanni di Mozart.

Nello stadio propriamente etico questa contraddizione viene vinta nella scelta che si lega alla pratica di valori universali: se don Giovanni si convertisse, opererebbe la scelta della fedeltà e del matrimonio.

 

A cosa porta il salto della fede?

E’ nello stadio religioso che si raggiunge il vertice del proprio nesso con l’universale: l’universale per eccellenza, l’infinito, si manifesta con la sua paradossalità sino a esigere la stessa sospensione della più consueta ragione: è il caso drammatico di Abramo, che si appresta a sacrificare il figlio Isacco solo per obbedire a Dio. La scelta deve in definitiva vincere la paradossalità del nesso finito-infinito dando fede al “ricordo dell’eterno” e saltando al di là dei limiti denunciati dalla riflessione: salto della fede appunto, o abbandono nel mistero che ci costituisce. Dove poi il paradosso religioso si fa più alto, nell’orizzonte della rivelazione cristiana, lo slancio sembra darsi persino contro ragione. Ma la fede è del tutto irrazionale, è scandalo per la ragione, non può essere rinchiusa in categorie del pensiero logico. La fede crede, nonostante tutto, e se ne assume i rischi.

 

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