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17 ottobre 2022 - Filosofiamo    No Comments

L’istituto della rappresentanza come maschera

 

Un’opportunità di riflessione da non perdere.

In un suo articolo, uscito su rivista di filosofia on-line nel Marzo 2006, Claudio Bonvecchio coglie lo spunto dalla fiabaBiancaneve e i sette nani” per esaminare il tema della maschera, evidenziando come le due maschere, la regina e Biancaneve, possano essere considerate le maschere archetipiche del femminile, cioè della donna. Buonvecchio, altresì, ponendo l’attenzione, nello stesso articolo, sulla maschera ed il suo ruolo, evidenzia “come il tema dell’ombra in Jung costituisca un tema importante per la Psicologia analitica, in quanto l’ombra rappresenta quell’aspetto inconscio che deve essere reso conscio onde evitare che gravi sull’uomo interagendo, in forma proiettiva, su di lui “(cfr. J. Jacobi, La psicologia di C. G. Jung, trad. it., Boringhieri, Torino, 1973 pp. 137- 143). A questo proposito, in “L’uomo e i suoi simboli – Introduzione all’inconscio pag. 7 – 9, nell’importanza dei sogni”, Jung evidenzia come il linguaggio dell’uomo sia ricco di simboli come di segni, di immagini che, in senso stretto, non sono descrittivi, cioè non sono dei semplici simboli, ma solamente dei segni che hanno il compito di indicare gli oggetti a cui sono riferiti. In realtà il simbolo non è altro che un termine, un nome o una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni, ma che nel contempo indica qualcosa di vago, di sconosciuto e di inaccessibile. In altri termini per Jung una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio ed immediato: l’uomo non percepisce o mai comprende nulla completamente, perché tutto ciò che può conoscere è possibile solo attraverso la propria completa capacità percettiva, dipendente in ogni modo dal numero e dalla qualità dei propri mezzi percettivi. Tuttavia l’uomo può giungere solo ad un limite di certezza al di là del quale non è più in grado di conoscere. Per questo ogni nostra esperienza contiene un numero infinito di fattori sconosciuti, nella misura in cui non siamo in grado di conoscere la natura sostanziale della materia in sé. In effetti, quando noi ci muoviamo nello spazio, cercando di concentrare la nostra attenzione su tutto ciò che accade intorno a noi, taluni eventi non vengono registrati consapevolmente, rimanendo al di sotto della soglia della coscienza. Questa parte della realtà può apparire sottoforma di sogno, di immagine simbolica. Secondo questo tipo di ragionamento si giustificherebbe l’esistenza di due “soggetti”, o di due personalità all’interno dello stesso individuo. L’uomo ha concretizzato la propria civiltà dopo numerosissimi secoli, ma questa evoluzione è ben lungi dall’essere giunta al suo completamento. La nostra psiche è parte della natura ed i suoi enigmi sono infiniti. La coscienza è semplicemente una recente conquista della natura ed è ancora in una fase sperimentale, cioè è caratterizzata da un alto grado di fragilità, da una qualche dissociazione della coscienza. Come afferma Jung: il celebre etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl ha definito «partecipazione mistica» ciò che l’uomo ha, oltre alla propria anima, come ritengono le popolazioni primitive, è un’«anima della foresta», come anche quest’anima, del resto, viene ad incarnarsi in un animale selvaggio o in un albero, con i quali l’individuo umano ha una specie di identità psichica. In tal senso, secondo i primitivi, l’uomo che è considerato fratello del coccodrillo in realtà è immune dall’assalto dei coccodrilli quando venga a nuotare in un fiume. Pertanto l’offesa che viene fatta alla foresta o alla specie dei coccodrilli è un’offesa nei confronti dell’uomo. In questa prospettiva ogni singola persona è composta di diverse unità fra loro collegate, ma singolarmente distinte. Anzi la psiche dell’individuo è tutt’altro che una unità perfettamente sintetica; al contrario essa rischia di frantumarsi anche troppo facilmente sotto l’urto di emozioni violente.

Il contributo di Benjamin Constant.

A questo punto, mi viene spontaneo porre l’accento sul contributo di Benjamin Constant che, tra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo, venne ad intrecciare in modo indissolubile la propria riflessione teorica con la partecipazione alle vicende storico-politiche francesi del Direttorio e della Restaurazione. Benjamin Constant nel famoso Discorso sulla libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, scritto in occasione delle elezioni al parlamento francese del 1819, viene a chiarire la differenza tra la libertà degli antichi e quella dei moderni. Infatti per Constant la libertà dei moderni si identifica, in primo luogo, con il requisito dell’indipendenza individuale dal potere: sta a noi usare questa indipendenza come meglio crediamo. In secondo luogo, a questo insieme di libertà civili,”, che vengono definite libertà personali e che costituiscono il cuore della libertà moderna, necessariamente deve essere associata la libertà politica, definita come libertà pubblica, che consente ad ogni elettore di prendere parte alle decisioni collettive attraverso le elezioni dei propri rappresentanti. Per questo l’Istituto della rappresentanza politica assume una funzione decisiva a garanzia del carattere democratico dello Stato.

Una possibile interpretazione junghiana della tesi di Constant.

Gli avvenimenti, conseguenti alle elezioni del 25 Settembre scorso, che hanno caratterizzato il momento dell’elezione dei presidenti del Senato e della Camera dei Deputati del nostro paese, evidenziano come la maschera della rappresentanza politica, in questa fase storica in cui emerge un processo disgregativo della società nei termini di liquidità della società stessa e, quindi, nel venir meno di una qualsiasi certezza del domani, è al centro di una contestazione nella misura in cui si viene ad obiettare sul valore che possa avere la capacità da parte di ogni eletto di rappresentare ogni cittadino e, quindi, di affrontare e risolvere i problemi che nella quotidianità ognuno di noi deve affrontare.

Considerazioni conclusive.

Le parole attribuite ad Eraclito da alcuni suoi interpreti: “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e da cui non deriva nessuna strada”, suggeriscono alcune domande su come i rappresentanti parlamentari appena eletti si propongano di svolgere il proprio compito a favore del Paese. Per questo ritengo sia opportuno prendere in considerazione quanto Victor Hugo ebbe modo di affermare il 5 aprile 1850 all’Assemblea legislativa di Francia:

«Noi dobbiamo far uscire una società nuova dalle viscere della società antica… Perciò non abbiamo il tempo per odiarci. L’odio è uno sciupio di forza e di tutti il peggiore. Riuniamo dunque fraternamente gli sforzi in un comune intento: il bene del paese. Cerchiamo insieme e cordialmente la soluzione del formidabile problema di civiltà, che ci è posto, e che contiene, secondo il modo con cui lo risolveremo, le più fatali catastrofi o il più luminoso avvenire”.”

Per tanto, facendo mio l’appello di Victor Ugo all’Assemblea legislativa di Francia del 5 Aprile 1850, rivolgo l’invito ai nuovi rappresentanti parlamentari del Paese Italia, cioè l’appello a superare tutti insieme questo grave momento, mettendo da parte tutto ciò che alimenta la divisione, il conflitto, la perdita del bene comune, cioè il benessere, il futuro degli italiani, in conformità del dettato della nostra Carta Costituzionale.

 

Prof. Alfio Profeti

 

11 ottobre 2022 - Filosofiamo    No Comments

Quale società, quali valori?

 

Il presupposto di un’analisi sociale.

Dalla constatazione del degrado dei valori etici nella nostra società nasce il bisogno di riflettere su questo fausto processo disgregativo affinché nell’opinione pubblica si avverta la necessità di interrogarsi sulle cause e su quei possibili ed opportuni rimedi da concretizzare. Taluni studiosi, sulla base delle proprie esperienze professionali, hanno focalizzato l’attenzione sulle cause della negazione dei valori e, quindi, del processo disgregativo della stessa società, proponendo alcuni antidoti e principi guida per il ripristino di quella integrità morale ed etica di fatto perdute. Per questo si è avvertita la necessità di spronare, tutti coloro che hanno deciso di dedicare il proprio impegno al servizio del bene pubblico, affinché la loro attività non ignori il senso della giustizia, che necessariamente deve derivare dal rispetto dell’uomo, della natura umana, quale fonte di diritti inalienabili, che non possono essere né compressi né tantomeno cancellati da una volontà politica, anche se eventualmente fosse maggioritaria. Infatti esistono dei riferimenti etici che sono intangibili, che riguardano il valore della persona, la sua libertà di pensiero, l’esercizio di una fede religiosa, il dovere di solidarietà verso le altre persone, specialmente quelle più fragili e bisognose, che in fondo rappresentano la motivazione più intima dell’agire politico.

Le cause storiche.

Nel mondo attuale, a partire da quanto ha caratterizzato il XXI secolo, purtroppo, da vicende terribili come gli attentati di New York sembra siano venuti meno le contrapposizioni ideologiche che hanno contraddistinto il Novecento, definito da molti il secolo delle ideologie, dello scontro fra sistemi contrapposti, dove ognuno tende ad avanzare una propria filosofia di vita, una concezione chiusa alla mediazione e a ogni rapporto esterno. In conseguenza a tutto questo, oggi più che mai avvertiamo la necessità di fare a meno degli “steccati” che da un lato hanno diviso uomini e Stati del secolo scorso, come quegli scontri, quelle guerre sanguinose che dall’altro hanno caratterizzato in modo negativo il nostro continente. Altresì, non si può certo pensare che il venire meno di ideologie che hanno passionalmente infiammato l’animo di milioni di persone, possa essere sostituito con l’assoluta anonimia, con la mancanza di identità, di un’eredità culturale e valoriale, con l’incapacità di riconoscersi in qualcosa di più duraturo rispetto a ciò che si delinea come l’insieme degli affanni quotidiani o del cinico pragmatismo che inevitabilmente preme sulla nostra quotidianità.

L’inevitabilità di una riflessione.

Sulla base di questi  presupposti, emergono considerazioni quali il fatto che la semplice osservazione e valutazione della concreta e dolorosa realtà quotidiana, possa costituire la motivazione, l’occasione di una riflessione che ognuno può realizzare sia nel proprio cuore e condividere con gli altri, favorendo la consapevolezza del valore e del significato dell’impegno costruttivo praticato in ogni giorno, evitando ciò che Calamandrei indicava come limite ricorrente delle nuove generazioni, l’indifferentismo ed il relativismo, animando e sostenendo, quindi, l’affermarsi di quei valori  etici che sono intangibili, che riguardano la dignità ed il decoro di ogni persona, la libertà di pensiero, l’esercizio di una fede religiosa, il dovere di solidarietà verso le altre persone, specialmente quelle più deboli e bisognose, che in fondo rappresentano la motivazione più intima dell’agire politico.

Il giudizio di Bauman.

In effetti, questo processo degenerativo della società, che Zygmunt Bauman definisce nei termini di società liquida, provoca inquietudini, dà luogo a stati d’animo ansiosi per un domani incerto, carico di incognite e fonte di paure.

La circostanza del senso del passato.

Hegel (1770 – 1831) dopo essersi laureato, trovandosi nella necessità di trovare un lavoro, emigra a Berna, in Svizzera e lì, durante la sua permanenza, viene ad esprimere (1793 – 1796), alcune sue riflessioni nelle lettere che scrive ai suoi vecchi compagni di studi.   Nella terza lettera 1795, che scrive all’amico Schelling, dopo essersi soffermato nella descrizione di alcune consuetudini della borghesia bernese, scrive: “I filosofi hanno insegnato, adesso spetta ai popoli non far calpestare i propri diritti nella polvere”.

Ma che cosa hanno insegnato i filosofi?

Concretamente Hegel, come tanti altri filosofi, riteneva necessario far percepire agli uomini ciò che essi non sanno comprendere, perché si limiterebbero ad identificare la realtà con la sua forma esteriore e non con ciò che essa è veramente.

Le premesse del nichilismo.

Già Gorgia da Lentini (485 – 376 a.C.),  partendo dal presupposto condiviso nella cultura antica secondo cui la percezione costituiva la modalità originaria di accesso alla realtà esterna e alla sua conoscenza, contrariamente a coloro che pensavano che fosse possibile non solo la conoscenza della realtà naturale, ma pure la spiegazione certa e inoppugnabile della stessa realtà come del mondo, ebbe modo di affermare “nulla è; se anche qualcosa fosse non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile”, negando di fatto la pretesa umana di fornire una rappresentazione e, quindi, una conoscenza oggettiva della realtà. Per questo Gorgia è ritenuto colui che orienta ed inizia il percorso del pensiero occidentale, che in tutta la sua storia si è allontanato dalla verità dell’essere, e nell’età della tecnica perviene all’esito di un radicale, coerente, ma, proprio per questo, assai potente, nichilismo.

Senso e funzione del nichilismo.

Tuttavia se il nichilismo, come termine, ha fatto la sua comparsa a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento nelle controversie che hanno caratterizzato la nascita dell’idealismo tedesco, solo nel pensiero del Novecento è emerso come problema rilevatosi come  espressione dei più diversi tentativi culturali volti a sperimentare la potenza del negativo e a viverne le conseguenze, per cui inevitabilmente tutto ciò ha fatto emergere il malessere profondo che affiora dal “processo d’individuazione” proprio del nostro tempo.

Il contributo di Carl Gustav Jung.

A questo proposito è bene precisare che Jung intende per individuazione quel processo di differenziazione che ha come meta l’evoluzione della personalità individuale, per cui essa rappresenta lo sviluppo delle particolarità di un individuo, sulla base della sua disposizione naturale. Se l’individuazione viene a costituire, secondo Jung, una “via individuale” che può deviare rispetto a quella consueta, essa, però, deve condurre ad uno spontaneo riconoscimento delle norme collettive. L’individuazione rappresenta pertanto un processo di elevazione spirituale: essa porta infatti ad un “ampliamento della sfera della coscienza”. (C. G. Jung, Tipi psicologici)

Il dibattito attuale sul disagio giovanile.

In ogni caso, secondo Umberto Galimberti, il disagio giovanile ha come causa una sorta di crisi “culturale”, perché il futuro che la nostra cultura prospetta ai giovani non è una promessa come lo era per i loro padri, ma qualcosa del tutto imprevedibile, che non retroagisce come motivazione capace di sostenere l’impegno richiesto dallo studio in vista di una professione o di un lavoro per il quale ci si sente motivati. (Galimberti Umberto – 2018 – La parola ai giovani_ Dialogo con la generazione del nichilismo attivo)

Secondo Riesman, nelle moderne società occidentali, in particolare nei luoghi dove si esplicano le pratiche di consumo (cinema, supermercati ecc.), l’individuo risulta massificato, spersonalizzato, omologato ai suoi simili. (David Riesman-La folla solitaria-Il Mulino 1999)

Addirittura secondo Gustavo Pietropolli, nel saggio “L’insostenibile bisogno di ammirazione”, per gli adolescenti, l’incessante ricerca di ottenere una foto che ci ritragga in vicinanza al personaggio noto, cioè tramite il selfie che costituisce  per l’autore e per i destinatari un tentativo di cogliere la realtà nella sua velocissima trasformazione, per cui il selfie viene inteso  come un documento legittimo, quasi dovuto, concernente la vita di relazione e le occasioni di incontro del protagonista, è in effetti la testimonianza di un disagio, nella forma di un tentativo di socializzare il privato trascinandolo a viva forza sulla scena sociale, invitando tutti al banchetto dell’ultima gag che avrebbe l’ambizione di essere cautamente divertente. (Pietropolli Charmet Gustavo L’insostenibile bisogno di ammirazione – Laterza 2018)

 

Pietropolli, in “Fragile e spavaldo” aggiunge:

Uno dei possibili motivi di sconcerto da parte degli adulti può dipendere dall’ambiguo impasto di fragilità e spavalderia che caratterizza una parte molto consistente degli attuali adolescenti. Naturalmente la fragilità è sempre stata una caratteristica invariante dell’adolescente: l’adolescenza anzi dovrebbe servire proprio a temprare il carattere rendendolo forte e non più fragile e contradditorio. La fragilità degli adolescenti di oggi ha però qualche caratteristica di novità rispetto alle generazioni precedenti. Perché è una fragilità che si fonda sull’impressione di avere una missione speciale da compiere, e che colloca l’adolescente fuori dal suo tempo rendendolo spesso disinteressato alle vicende che dovrebbero invece riguardarlo da vicino. Gli adolescenti pensano di doversi dedicare allo sviluppo della loro bellezza, non solo fisica, ma psichica, sociale, espressiva. Sembrano convinti che la loro segreta missione abbia diritto di precedenza rispetto ad altre incombenze e che, in caso di conflitto fra questa e le esigenze avanzate dall’ambiente in cui vivono, non debba esserci dubbio su cosa privilegiare. Il bisogno di curare la loro bellezza li rende permalosi, esposti al rischio di sentirsi poco apprezzati, umiliati e mortificati da un ambiente che non dà loro il giusto riconoscimento. Quindi fragili perché esposti alla delusione derivante dal divario fra aspettative di riconoscimento e trattamento reale da parte di insegnanti, coetanei, genitori. Fragili perché addolorati dall’umiliazione e dal rischio di doversi troppo spesso vergognare del proprio corpo e della propria, a volte irrimediabile, invisibilità sociale.”

(Pietropolli Charmet Gustavo Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi 2010)

Le considerazioni di Jung.

In sostanza questi esiti nei termini del processo di individuazione, cioè di realizzazione delle proprie potenzialità e di integrazione delle varie componenti del sé, è un percorso che dura tutta la vita e si profila come il compito principale di ogni persona. Un tratto fondamentale dell’essere umano nel suo processo di sviluppo è la realizzazione dell’autoconsapevolezza: essere coscienti di esistere e riflettere su di sé. Infatti il sé (inteso come conoscenza di se stessi, che si esprime in pensieri e discorsi) si forma nell’interazione con gli altri, in quello scambio affettivo e comunicativo con le figure parentali e amicali così importante per lo sviluppo psicologico fin dal primo anno di vita. Per questo Jung ci invita a considerare in modo positivo l’intero arco della vita, anche la seconda metà, rifiutando una visione della vecchiaia come decadi­mento. In altre parole il processo di individuazione, per Jung non È altro che il processo di integrazione in un Sé unitario delle diverse parti della personalità.

I risultati della ricerca in ambito psicologico.

Gli psicologi sono ben consapevoli che il compito di definire la propria identità, ovvero di rispondere in modo soddisfacente alla domanda: “chi sono?” inizia ben prima dell’a­dolescenza, ma ritengono che in questa età si presenti in modo particolarmente urgente e del tutto originale. In primo luogo l’adolescente ha rinnovati riferimenti e nuove fonti di informazione: per il bambino infatti quello che conta è l’opinione dei genitori, per cui il suo concetto di sé corrisponde a quello che essi pensano di lui. L’adolescente invece è quotidianamente a contatto con una pluralità di persone, in situazioni e ambienti diversi, da cui provengono informazioni talvolta contraddittorie che egli dovrà integrare in una visione nuova e coerente: in primo luogo dovrà fare i conti con quello che gli presenta lo specchio, ovvero con il proprio corpo, di cui lo specchio riflette tutti i rapidi cambiamenti legati alla pubertà; in secondo luogo dovrà rielaborare quello che apprende nei contesti sociali di riferimento: la famiglia, la scuola, le associazioni ma soprattutto il gruppo dei pari. La famiglia è ancora il principale ambiente di vita, ma l’autorevolezza dei genitori viene messa in discussione: essi sono le prime “vittime” del processo di elaborazione di un’identità autonoma, in quanto sono considerati interpreti di idee superate e di una mo­ralità fatta solo di proibizioni da cui occorre emanciparsi. Il giudizio dei coetanei invece per il ragazzo è molto importante. Egli sa che per entrare e restare in un gruppo a cui tiene moltissimo dovrà superare una sorta di esame collettivo che concerne il suo aspetto fisico, la simpatia, l’intelligenza, l’abbigliamento, il talento nella musica o nel ballo: si impegna perciò a tirare fuori il meglio da se stesso per essere accettato, amato ed eventualmente eletto a leader del gruppo. Vi sono poi figure di adulti significativi che in età adolescen­ziale acquistano un’importanza che prima non avevano: possono essere insegnanti par­ticolarmente preparati e disponibili al dialogo, oppure allenatori sportivi, artisti, leader politici o guide spirituali.

L’identità in età adolescenziale.

In mezzo a tutti questi soggetti l’adolescente mette in atto i due processi essenziali alla costruzione di un’identità nuova, più matura e articolata di quella infantile: l’identificazione con modelli di riferimento e la sperimentazione di idee, incontri, interessi, relazioni affettive. In entrambi questi processi l’adolescente dimostra la propria creatività, adot­tando comportamenti inediti e facendo esperienze che non sempre gli adulti approvano, anche se non sconfinano nell’illecito: un abbigliamento stravagante, un hobby coltivato con passione esclusiva, una certa tendenza all’isolamento nella propria stanza di fronte al computer, l’alternare esplosioni di allegria e socialità a momenti di malinconica solitudine possono suscitare un ingiustificato allarme negli adulti. Il ragazzo potrà così essere eti­chettato come ribelle, trasgressivo, asociale, instabile, incoerente, “difficile”. Si tratta nella maggior parte dei casi di sperimentazioni innocue e necessarie a mettere alla prova se stessi indossando diverse maschere sociali, che gli adulti in ogni caso dovranno osservare con una certa attenzione, allo scopo di cogliere tempestivamente dei segnali preoccupanti di allontanamento dalla realtà o di rischio di dipendenza.

Il motivo dell’inquietudine adolescenziale.

Nell’età dell’adolescenza l’interrogativo sulla propria identità emerge in modo urgente e originale: in questa fase di sperimentazioni e identificazioni risulta estremamente importante il gruppo dei pari, con cui il ragazzo si confronta e dal quale si aspetta approvazione e conferme. L’età adolescenziale, infatti, proprio per il suo carattere di sperimentazione, può avvicinare i giovani a comportamenti rischiosi per la salute fisica e psichica: fumare, bere alcolici, mangiare troppo o troppo poco, immergersi totalmente in una passione – ad esempio i social network – trascurando tutto il resto, guidare la motocicletta in modo imprudente, sottoporsi a tatuaggi o applicazioni di piercing senza controllare il rispetto delle norme da parte di chi effettua tali pratiche.

Gli esiti della ricerca psicologica.

Le ricerche dello psicoanalista Erik Erikson (1902-1994) e del suo continuatore James Marcia hanno come oggetto la costruzione dell’identità nell’adolescenza e costituiscono tuttora dei punti di riferimento preziosi. Per lo psicologo canadese James Marcia, continuatore di Erikson, il compito di sviluppo principale dell’adolescente è la definizione della propria identità. Il giovane si muove in due direzioni: quella dell’esplorazione e quella dell’impegno. Esplorare signi­fica fare esperienze, scegliere tra le molte possibilità che la vita offre; impegnarsi significa scegliere e successivamente affrontare con serietà il percorso scelto. Ma qui emerge la difficoltà che si rivela come la causa del disagio che i giovani vivono sulla propria pelle, in quanto l’adolescente, trovandosi nella condizione di non provare, di non scegliere, di non impegnarsi: conseguentemente vive in una condizione di “moratoria” (so­spensione, attesa); è questa una condizione frequente nei periodi di crisi economica e sociale, di cui i giovani sono tra le prime vittime. Tuttavia è proprio ciò che viene definita come l’identità diffusa, che si risolve nella massima esplorazione e nel minimo impegno. A questo proposito il ruolo dei valori, come riferimenti ideali che guidano la vita di una persona, risulta di particolare rilevanza nell’età adolescenziale, fase nella quale l’individuo acquisisce le competenze e i requisiti necessari per assumere particolari responsabilità e riorganizzare il proprio Self. Secondo Marcia, infatti, è proprio questa la situazione potenzialmente più pericolosa delle altre, in cui l’adolescente prova un po’ di tutto in modo molto superficiale, senza scegliere e senza impegnarsi; per cui emerge un quadro di identità confusa e dispersa, tipico, ad esempio, di molti giovani tossicodipendenti. Conseguentemente per Marcia l’adolescenza è caratterizzata da un processo di integrazione che si delinea in una percezione di sé coerente e unitario delle novità provenienti dal corpo, dalla mente e dall’ambiente sociale. Ma quando questo ambiente pone l’adolescente di fronte a dei modelli di riferimento che lo disorientano, cioè non gli consentono di individuare la stella polare che lo aiuti a comprendere ed a perseguire coerentemente il proprio processo di crescita come cittadino, come membro attivo di una comunità democratica, allora si affermano quei cortocircuiti relazionali che hanno come principale conseguenza la dispersione sociale, l’incapacità di affermare la propria identità, perdendo il senso del vivere e di fatto non permettendo il riconoscimento di quei valori che vengono a costituire la stella polare da seguire.

Significato e funzione del valore morale.

Il valore morale è ciò che acquisiamo dal vivere quotidiano e che si integra con le norme o modalità di comportamento che ereditiamo dal modello culturale e dalla realtà sociale di appartenenza. Un valore è centrale per l’individuo quando viene interiorizzato nel proprio Self, contribuendo alla personale auto-definizione e apportando un senso alla propria identità.  Secondo tale prospettiva, risulta evidente che i valori apparterrebbero al mondo interno; tuttavia, la presenza di una correlazione positiva tra valori percepiti come personalmente centrali e valori percepiti come culturalmente importanti suggerisce che le costruzioni sociali di priorità valoriali siano basate sulle concrete esperienze interpersonali.

Significato e influenza sociale del nichilismo.

La problematicità del sociale è stata testimoniata dall’opera e dallo scenario del nichilismo che ha svelato con profondità attraverso l’opera di Dostoevskij. Scrittore universale, destinato a influire non solo in Russia ma su tutta la letteratura occidentale, nei personaggi e nelle situazioni esistenziali dei suoi romanzi — specialmente Delitto e castigo (1863), I demoni (1873) e I fratelli Karamazov (1879-80), dando forma artistica a intuizioni e motivi filosofici che anticipano esperienze decisive del pensiero novecentesco, prima fra tutte quella del nichilismo, forma russa dell’ateismo. L’esposizione del nichilismo da parte di Dostoevskij, declinandolo in tante varietà e rappresentandolo in figure concrete, non ebbe come scopo il promuoverlo. La fortuna letteraria della sua opera ne favorì in realtà la diffusione, e contribuì a minare certezze incontestate ed a corrompere ordinamenti stabiliti. A questo proposito è opportuno precisare che è molto importante il fatto che lo squarcio aperto da Dostoevskij sullo scenario nichilista, nonostante la sua categorica condanna del fenomeno in nome di una rigenerazione degli ideali secondo lo spirito evangelico, ha trovato un osservatore entusiasta in Nietzsche.

Nietzsche ed il nichilismo.

Come scrive Costantino Esposito in “Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca”:

“Il nichilismo oggi ci parla in una maniera inedita: non è più (solo) l’invito al dubbio e allo scetticismo, ma è come una voce che nasce, ecco il punto, dall’interno di noi. È con la nostra stessa voce più intima che esso si fa sentire, come se uno si trovasse in un deserto – non per mancanza di relazioni o di scambi, ma nel deserto del senso, lì dove non vige più il silenzio, ma al contrario il chiasso di tante voci che si sovrappongono e si confondono, rischiando di non dire più niente: almeno niente di decisivo per la vita e le cose stesse sembrano non dirci più il loro senso. Allora nel deserto può venir fuori il nostro grido – un grido afono il più delle volte, ma che noi udiamo bene, sappiamo bene –, la richiesta di un perché dell’essere, della nostra stessa esistenza. Questa richiesta di un perché che faccia vivere, inibita dalla cultura nichilista perché ritenuta irrealizzabile e incompibile, non è una riflessione aggiuntiva o opzionale rispetto al vivere degli esseri umani, ma “è” questa stessa vita.” 

Conclusioni.

A partire dall’esperienza dolorosa della crisi sanitaria del covid/19, dall’inevitabile e conseguente crisi economica e dalla guerra russo-ucraina, si è imposta la necessità di rifondare la convivenza umana su valori, la cui messa in pratica permetta di realizzare un modello sociale dove ognuno trovi le certezze di una vita pacifica e dignitosa, in cui al centro di tutto deve essere  posto l’uomo, inteso come soggetto che si predispone ad una convivenza partecipativa e rispettosa gli uni degli altri. Ma quali valori possono permettere la realizzazione di questa auspicata nuova realtà comunitaria? Ritengo che non dobbiamo sottovalutare l’importanza della nostra carta costituzionale che, tuttavia, contiene un tesoro immenso di valori, di criteri operativi, la maggior parte dei quali non sono mai stati concretizzati. Ma all’ora come possiamo dar luogo finalmente a questo tanto auspicato processo di democratizzazione del nostro paese? Edgar Morin, nell’intervista del 14 Settembre scorso, ha posto l’accento su la categoria dell’improbabilità, intesa come ciò, di fronte a quanto viene percepito come conclusione nefasta della nostra società, costituisce in effetti quella opportunità insperata per realizzare la stessa cosa che in questo momento può avere solo i caratteri di un’utopia, di un sogno che inevitabilmente si scontra con la crudezza della realtà concreta. Per questo motivo, nel mio precedente scritto ho voluto portare l’esempio di Nelson Mandela, il quale dopo 27 anni di detenzione in un carcere di massima sicurezza, viene liberato ed addirittura potrà essere eletto Capo dello Stato della Repubblica del Sudafrica. Questo esempio deve essere motivo, per ogni persona, nell’essere fiduciosi, attraverso il proprio costante impegno, di realizzare i sogni che sono presenti in ogni essere umano, fino a quando ciascuno sarà in grado di testimoniare la propria voglia di vivere.

Prof. Alfio Profeti

5 ottobre 2022 - Filosofiamo    No Comments

Il diritto fonda il potere o il diritto legalizza il potere?

Essendo giunto ad un’età per cui mi trovo ad essere pensionato e, guardandomi intorno inevitabilmente sono indotto a percepire la grave crisi del paese, per cui spontaneamente mi è sorta la domanda, come posso non essere un ingombro, nonostante l’età non più giovanissima, bensì possa essere una possibile risorsa per le nuove generazioni? A questo proposito, sulla base del mio retroterra culturale e professionale, mi sono arrischiato a scrivere alcune riflessioni (lettere virtuali rivolte ai miei ex allievi come a virtuali probabili studenti), con la speranza di favorire un confronto volto a maturare una maggiore consapevolezza democratica. Per questo, giunti alla fine della campagna elettorale, avverto la necessità di formulare a voce alta una domanda: il diritto crea il potere o il diritto legittima il potere? Prendendo spunto dal titolo del saggio di Vincenzo Russo “Due tocchi di gel sui miei capelli bianchi”, ritengo importante avviare una qualche riflessione su questo tema spinoso. Norberto Bobbio, a suo tempo, ha stigmatizzato come potere e diritto siano le facce della stessa medaglia, per cui il rapporto tra diritto e potere può essere analizzato in due prospettive corrispettive: dal punto di vista della norma e/o dal punto di vista del potere. In primo luogo è necessario precisare come la riflessione sul potere dia luogo a considerazioni su concetti come “forza”, “violenza”, “soggezione” e “autorità”. Il denominatore comune tra questi concetti è, comunque, la persona umana riconosciuta o meno nel suo valore fondante, cioè la dignità.

Che cosa si intende per dignità?

In primo luogo bisogna chiarire che il tema della dignità è stato oggetto di due diverse interpretazioni che si fondano su due distinte teorie: la teoria della dotazione, cioè la dignità umana è determinata da ciò che l’uomo è per natura, e la teoria della prestazione, per cui la dignità è il risultato dell’agire umano. Nella prospettiva della teologia cristiana l’essere umano è soggetto di dignità in quanto creato a somiglianza dell’immagine di Dio e, quindi, oggetto comunque di rispetto. Di fatto questa posizione, nella realtà concreta, è contraddetta, in quanto anche in età contemporanea la dignità umana è continuamente violata, nonostante  che, a partire  dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, come la stessa Costituzione italiana ed altre carte costituzionali, non ultima  la stessa Costituzione spagnola post franchista, in cui si prevede, in alcuni suoi articoli, il rispetto della dignità umana ed, come del resto in altri paesi della stessa Unione Europea, i costituenti hanno fornito ampie garanzie in ordine a quei diritti che nel medesimo ordinamento comunitario si collocano nell’orbita della dignità. Sulla base di questi presupposti, oggi si potrebbe affermare che il concetto di dignità debba intendersi come ben radicato nel tessuto dell’ordinamento giuridico internazionale. Purtroppo la concretezza del presente dimostra che non è così. Tuttavia ritengo che non si debba rinunciare al sogno che ha animato visionari come Altiero Spinelli che sognarono una Europa unita per porre fine, una volta per sempre, a tutti quei conflitti che nel corso dei secoli hanno funestato la storia del continente europeo. L’esempio di Nelson Mandela, nondimeno, testimonia che non dobbiamo perdere la fiducia che il sogno di alcuni antifascisti, condannati al confino sull’isola di Ventotene, può, anzi deve essere realizzato.

 

Prof. Alfio Profeti

5 ottobre 2022 - Filosofiamo    No Comments

L’attualità di Francesco Bacone

Il 19 Settembre 2022, in Inghilterra, sono stati celebrati i funerali della Regina Elisabetta II Windsor.

In tale occasione è stato sottolineato come Elisabetta II abbia regnato, garantendo l’unità del regno, la vita dignitosa e decorosa dei propri sudditi, con il dovuto riguardo per le Istituzioni democratiche del paese.

Tutto questo mi ha indotto a capire quali siano stati i presupposti storici, politici e culturali che hanno favorito il regno della Regina Elisabetta II.

Dunque, volgendo il mio sguardo verso il passato, spontaneamente sono stato attratto dalla figura di Francesco Bacone.

Perché Bacone? Quali suggerimenti può proporre ancora oggi questo intellettuale?

In una famosa lettera del 1592 Bacone affermava di nutrire grandi ambizioni filosofiche e più moderate intenzioni politiche, avendo eletto a propria provincia “ il dominio della conoscenza nella sua totalità.”

Infatti Bacone era convinto che la conoscenza, in tutte le sue varie possibili forme, ma soprattutto la conoscenza della natura, in quanto percezione dell’autentica realtà delle cose, costituisse il fondamento da cui l’umanità doveva partire per raggiungere una condizione generalizzata di benessere. materiale e spirituale.

Bisogna precisare che Bacone non è stato uno scienziato, ma un raffinato studioso della cultura rinascimentale. Inoltre, come gli studiosi della prima metà del seicento, Bacone era fermamente convinto che i due secoli precedenti al diciassettesimo secolo siano stati la causa della disgregazione dell’ordine costituito.

A tale proposito Bacone viene ad impegnarsi sostanzialmente su due livelli: il primo livello di carattere politico non disgiunto da un secondo livello, che possiamo identificare nell’interesse verso la stretta relazione tra scienza e tecnica. In altre parole, nella cultura rinascimentale, era dominante un parallelismo tra mondo naturale e società, tra il sistema astronomico ed il sistema istituzionale.

Il mondo era concepito come una sfera, in cui appese alla circonferenza erano collocate le stelle fisse, scendendo, la terra era collocata al centro dell’universo e tra la terra ed il cerchio delle stelle fisse erano poste altre circonferenze occupate dai pianeti e dal sole. Questo era un mondo concepito perfettamente sferico, ordinato e stabile e al di sopra delle stelle fisse venivano collocati nella loro funzione rassicurante ed incoraggiante Dio e gli angeli. Altresì, mentalmente parlando, sul piano politico era condivisa una raffigurazione speculare della società, in cui al centro si poneva l’uomo e, tra il centro e la periferia di questo mondo sferico erano delineati dei tratti circolari concentrici, all’interno dei quali erano collocati valori come le virtù: la bontà, il rispetto delle leggi. Questa, in altre parole, non era altro che la rappresentazione della società degli uomini perfettamente stabile, in cui erano posti, al di sopra della circonferenza periferica la Regina Elisabetta I, capo della Chiesa anglicana, e la Camera dei Lord. Per lo studioso della prima metà del seicento questi due mondi paralleli si stavano disfacendo, cioè la società si stava sgretolando come conseguenza della rivoluzione scientifica in atto, per cui si rendeva necessaria una reazione di fronte a questo cambiamento epocale.

A questo proposito Bacone, in quanto politico e raffinato intellettuale, era convinto che il mondo della scienza e della techne, cioè il progresso conoscitivo e tecnologico, costituisse quella opportunità che avrebbe consentito di affermare nella collettività una vita decorosa e dignitosa per tutti, ma, per realizzare questo obbiettivo, si doveva essere in grado di saper utilizzare questi strumenti, cioè la conoscenza e la techne. Per cui era inevitabile abbandonare la concezione mitica e metafisica del passato caratterizzata dagli idola, cioè dai pregiudizi, che, ieri come oggi, cristallizzano, ostacolano il sistema sociale, determinando l’arretratezza e l’impoverimento della società stessa.

Bacone, che conosceva molto bene il pensiero di Machiavelli, avendo avuto la possibilità di leggere le opere del fiorentino, condivideva l’opinione del Machiavelli stesso relativa al fatto che “i cittadini intelligenti hanno a cuore il bene pubblico e fanno sentire la propria voce”. Per questo i politici si devono giudicare sulla base dei fatti concreti e non sulle semplici promesse elettorali. Le corti sono piene di adulatori, nella misura in cui gli uomini si compiacciono tanto nelle cose lor proprie, e in tal modo vi s’ingannano, per cui con difficultà si difendono da questa peste.

In effetti il rapporto che Bacone intratteneva con la cultura aristotelico-scolastica, cioè con il passato, era del tutto particolare e ci aiuta ancor meglio a comprendere sia la sua missione di profeta della scienza moderna, sia i momenti attraverso cui egli ha elaborato tale visione del sapere e della ricerca scientifica.

A tutto ciò bisogna aggiungere il fatto che la ricerca del mezzo comunicativo ideale, soprattutto dei modi di trasmissione del sapere, della giusta retorica, sono tematiche che non appartenevano solo a Bacone ma che permeano tutta la cultura moderna in generale, quella inglese in particolare.

Bacone, da politico consumato e da fine osservatore delle dinamiche politiche, per evitare di incappare nella scure della censura, seguì scrupolosamente i consigli indicatigli da Bodley, evitando la via della polemica più aspra. Infatti per un periodo di circa due anni fino al 1609 si dedicò proprio alla ricerca di uno strumento comunicativo che, oltre a penetrare l’immaginario collettivo degli ambienti più dotti e non, fungesse da mezzo “velato” attraverso cui le sue nuove idee potessero essere accettate senza creare forti scosse di assestamento.

Bacone, attraverso la descrizione della Casa di Salomone, viene a esporre  il suo ideale di comunità e di ricerca scientifica, ma essendo quest’opera incompleta, lascia aperto il dubbio rispetto alla sua importanza come opera politica dal momento che Bacone stesso riteneva di aver delineato per questa favola un ordinamento di Leggi e dello Stato migliore, o della “migliore forma di Repubblica”

Bacone, ben cosciente della funzione chiarificatrice della fiaba come percorso narrativo antico, la reintroduce attraverso soprattutto il racconto della Nuova Atlantide.

Infatti è proprio con la Nuova Atlantide che è possibile cogliere la capacità di Bacone nell’utilizzare il mezzo comunicativo della favola in cui si pone in essere il collegamento con il genere letterario più in voga del momento ossia l’utopia.

Gli studiosi, guardando all’utopia come ad una rappresentazione della sola migliore forma di governo, e dunque riferendosi soprattutto all’aspetto squisitamente politico, sono stati prudenti nel considerare la Nuova Atlantide come opera utopica o più precisamente come utopia. Per questo il progetto politico di Bacone fu ridotto, in seguito al fatto che la nuova Atlantide rimase incompiuta, ad una mera intenzione da parte di Bacone stesso, cioè nel porre in essere, tra utopia, progresso e modernità, uno stretto legame, destinato a produrre effetti a lungo termine e a cambiare, quindi ad affermare il diritto ad una vita dignitosa e decorosa la sorte di milioni di persone.

In questo senso Bacone ha contribuito a formare nella classe dirigente del tempo una disposizione mentale che ha trovato la sua piena affermazione negli anni del regno di Elisabetta II Windsor.

 

Prof. Alfio Profeti

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