11 novembre 2022 - Filosofiamo    No Comments

Il futuro è nel presente

 

La libertà come conquista morale.

Oggi più che mai il tema della libertà è al centro del dibattito contemporaneo e da luogo a contrapposizioni ideologiche, determinando la crisi della stessa democrazia. Tornando a riflettere su cosa il passato può suggerire a tutti noi per chiarire cosa si debba intendere per libertà, nel rispetto dei diritti di ogni persona, naturalmente mi viene da prendere in considerazione gli eventi che hanno caratterizzato le vicende politiche e culturali del XVII secolo in Europa. In particolar modo, sul piano filosofico politico e dello sviluppo del dibattito del giusnaturalismo seicentesco che si venne a delineare, emergono con forza alcuni protagonisti del dibattito culturale del tempo come Hobbes (1588 – 1679) e Spinoza (1632 – 1677). Nonostante che le circostanze in cui questi due pensatori ebbero modo di dare il proprio contributo siano state  diverse,   possiamo tranquillamente cogliere come ognuno abbia cercato di precisare su quali presupposti il suddito/cittadino possa realizzare la propria libertà. A questo proposito mi piace prendere in considerazione quanto Ken Follett viene a presentarci, a conclusione del suo romanzo “La colonna di fuoco”, nel dialogo tra il protagonista della storia ed il nipote Jack:

Chiedendosi cosa fosse stato a svegliarlo, alzò gli occhi e vide un giovane con i riccioli scuri di Margery: suo nipote Jack, il figlio di Roger. Sorrise. Jack era come Margery anche sotto altri aspetti: bello, affascinante e battagliero, e fin troppo serio in fatto di religione. Il suo estremismo era andato nella direzione opposta di Margery e lui era una specie di puritano. Questo causava litigate furibonde con il suo pragmatico padre. Jack aveva ventisette anni e non era sposato. Sorprendendo tutti, aveva scelto di fare il costruttore, e aveva fatto fortuna. C’erano stati grandi costruttori nel passato della famiglia: di nuovo somiglianze tramandate, forse. Ora si sedette di fronte a Ned e gli disse:

“Ho una notizia importante, nonno. Parto”.

“Perché? Hai un’attività che prospera qui a Kingsbridge.”

“Il re rende la vita difficile a quelli di noi che prendono sul serio gli insegnamenti della Bibbia.”

Ciò che intendeva era che lui e i suoi amici puritani erano in ostinato disaccordo con la Chiesa anglicana su molti punti dottrinali, e il re Giacomo era intollerante con loro come lo era con i cattolici.

“Mi dispiacerà molto vederti partire, Jack” disse Ned. “Mi ricordi tua nonna.”

“Anche a me dispiacerà dirvi addio. Ma noi vogliamo vivere in un luogo dove possiamo fare il volere di Dio senza interferenze.”

“Ho passato la mia vita cercando di fare dell’Inghilterra un posto così.”

Ma non lo è, vero?”

“È più tollerante di molti altri posti, per quel che ne so io. Dove vorresti andare in cerca di maggiore libertà?”

“Nel Nuovo Mondo.”

“Corpo di Cristo!” Ned era sconvolto. «Non credevo che andassi così lontano. Scusa per l’imprecazione, mi hai sorpreso.”

Jack annuì per accettare le sue scuse. Disapprovava quasi come i cattolici le esclamazioni blasfeme che Ned aveva imparato dalla regina Elisabetta, ma non lo fece pesare troppo. “Un gruppo di noi ha deciso di andare nel Nuovo Mondo e di avviare una colonia là.”

“Che avventura! È il genere di cosa che a tua nonna Margery sarebbe piaciuto molto fare.” Ned provò invidia per la gioventù e il coraggio di Jack. Lui non avrebbe più viaggiato. Per fortuna aveva tanti ricordi… di Calais, di Parigi, di Anversa. Si rammentava ogni dettaglio di quei viaggi, anche se non ricordava che giorno della settimana fosse.

Jack stava dicendo: “Anche se in teoria Giacomo continuerà a essere il nostro re, speriamo che si interesserà meno di come decidiamo di praticare, dato che gli sarà impossibile far rispettare le leggi a una tale distanza”.

“Direi che hai ragione. Ti auguro ogni bene.”

“Pregate per noi, per favore.”

“Lo farò. Dimmi il nome della tua nave, così posso chiedere a Dio di vegliare su di lei.”

«Si chiama Mayflower.”

“La Mayflower. Devo cercare di ricordarmelo.”

Jack si avvicinò allo scrittoio. “Lo annoto per voi. Desidero che ci ricordiate nelle vostre preghiere.”

“Grazie.” Era strano e commovente che Jack ci tenesse tanto alle preghiere di Ned.

Jack scrisse il nome su un foglietto di carta, poi posò la penna. “Adesso devo lasciarvi… ho tantissime cose da fare.”

(Follett Ken La colonna di fuoco – Ed. Mondadori pag. 457 – 458)

Quello che emerge dal dialogo è il bisogno di libertà che anima il giovane Jack ed ha da sempre animato il protagonista del racconto Ned, un bisogno che da sempre contraddistingue la storia delle vicende umane e che, man mano, ha assunto la maschera della religione, dell’ideologia politica come anche quella della rivendicazione del diritto ad una vita dignitosa, mettendo a rischio eventualmente la propria vita nell’intraprendere viaggi ricchi di imprevisti di ogni sorta.

 

Una riflessione sul rapporto cittadino Stato nella concezione di Hobbes.

Nel corso del sedicesimo e del diciassettesimo secolo si è giunti al compimento di quel processo storico che ha fondato lo Stato moderno, riassumibile nella famosa tesi di Luigi XIV “Lo stato sono io”. Questa tesi sintetizza la specificità dello Stato assoluto che verrà meno nella seconda metà del secolo XVIII. In Inghilterra, tra 1642 ed il 1649, si assiste ad uno scontro tra il parlamento e la corona, dando luogo ad una spaventosa guerra civile, che si concluderà con il processo e la condanna a morte per alto tradimento nei confronti del popolo inglese di, Carlo I Stuart e l’ascesa al potere di Oliver Cromwell. Il mutamento istituzionale, dalla morte di Carlo I Stuart alla restaurazione del 1660, evidenziò come solo un governo che avesse avuto davanti a sé un tempo sufficiente e che avesse adottato un modo di agire abbastanza autoritario, sarebbe stato in grado di creare le condizioni di consolidamento e rinvigorimento della nazione. Per questo, all’interno di un quadro sociale caratterizzato da una volontà di innovare, che aveva fatto nascere continuamente richieste e attese di ulteriori cambiamenti, determinò un disorientamento sociale, che impose un’inevitabile riflessione, i cui presupposti emergono dal Leviatano di Hobbes (1651), cioè una valutazione ed un ragionamento sul rapporto tra sovrano e sudditi, nei termini di razionalità ed irrazionalità,  che si imponeva come necessaria in conseguenza al libero dibattito che era emerso durante l’interre­gno e che aveva favorito il formarsi di un gran numero di idee nuove sull’organizzazione della società in tutti i suoi aspetti, idee che non erano facilmente conciliabili. A questo proposito, nel Leviatano di Hobbes è possibile individuare e precisare il concetto di razionalità nei termini di principio dell’azione individuale e con l’insieme di scelte possibili che il suddito può realizzare mediante la sua azione tanto nello stato di natura quanto nello stato civile. Quello che è interessante nel ragionamento hobbesiano è il fatto che per Hobbes lo stato di natura non indica un tempo storico preciso, ma è di fatto un’ipotesi da prendere in considerazione per comprendere la necessaria ragionevolezza dello stato civile, cioè la necessità di un potere forte che imponga il rispetto delle leggi a garanzia dell’integrità del corpo sociale e, quindi, dello Stato. In questo senso la restaurazione dello stato monarchico, dopo la morte di Oliver Cromwell, ha coinciso con l’affermazione di un potere autoritario che, per mediare le diverse fazioni politico-religiose, venne a decretare una politica di tolleranza, finalizzata a mediare gli inevitabili conflitti, per poi giungere a decidere la soluzione più opportuna, che il sovrano, detentore dell’autorità per volere divino, veniva necessariamente ad imporre. Per questo, secondo Hobbes, l’azione “non razionale” è distinguibile da quella “razionale” per il fatto di non essere coerente con il conseguimento dello scopo di soddisfazione stabile dei desideri del singolo e, più in generale, con il principio di conservazione, nel senso che  la riduzione del principio delle azioni umane alla ricerca dell’utile soggettivo conduce inevitabilmente ad una raffigurazione dell’ordine sociale, in cui l’interesse del singolo viene ragionevolmente negato per affermare  la necessaria autorità assoluta dello Stato. Il breve esame della tesi hobbesiana sulla necessità di un potere autoritario in una fase storica propria di una “società liquida” ci induce inevitabilmente a prendere in considerazione la proposta spinoziana sullo Stato, che pur partendo da una concezione della natura umana condivisa dallo stesso Hobbes, giunge a delineare una società fondata sulla libertà.

 

La tesi di Spinoza.

Come Hobbes, anche Spinoza parte dalla narrazione di un ipotetico stato di natura, stato di natura nel quale il diritto di ciascun uomo necessariamente coincide con la sua autorevolezza, nella misura in cui dalla natura ogni essere riceve tanto diritto quanta è la sua forza di esistenza e di azione. Ogni uomo è quindi oggetto di un diritto altrui finché è sotto il potere di altri, ed è nel pro­prio diritto quando può respingere ogni violenza, vendicare il danno che gli è stato fatto e vivere come gli pare. Ma questa condizione determina uno stato di “guerra di tutti contro tutti”, per cui come afferma Hobbes nel Leviatano, nello stato di natura il singolo individuo non può difendersi da solo e in cui, conseguentemente, il suo diritto naturale su tutto è semplicemente immaginario. Se inoltre si considera che gli uomini non possono provvedere del tutto ai propri bisogni, inevitabilmente si rende necessaria l’istituzione di un governo. Infatti, senza un aiuto reciproco, appare chiaro che nella condizione di precarietà che caratte­rizza lo stato di natura gli uomini sono spinti a cercare un comune accordo per una pacifica convivenza. E poiché quanti più persone si associano, tanto più cresce la loro autorità, quindi il loro diritto, dalla loro associazione deriva un diritto più forte, che appartiene a ciò che si chiama governo. Per questo il sorgere di un diritto comune, fondamentale all’istituzione di un governo, fa fiorire naturalmente le valutazioni morali, che si giustificano solo nell’ambito di una comunità organizzata, mentre non hanno senso al di fuori di essa. La giustizia e l’ingiustizia nascono conseguentemente come esito del diritto comune. Infatti come ogni individuo nello stato naturale, allo stesso modo lo Stato che nasce dal comune accordo tra gli uomini ha nei confronti dei singoli tanto diritto quant’è la sua autorità. Il diritto dello Stato limita quindi il potere dell’individuo, ma non annulla il suo diritto naturale e i vantaggi dello stato civile sono tali per cui conviene ragionevolmente a ciascuno di sottomettersi alle sue regole. Spinoza ritiene che, come ogni cosa naturale, anche lo Stato non può esistere e conservarsi se non si conforma alle leggi della propria natura: lo Stato è soggetto a leggi nello stesso modo in cui è sottomesso l’uomo nello stato naturale, per cui è obbligato a non distruggere se stesso. Come per il singolo, anche per lo Stato la regola migliore sarà dunque quella di fondar­si sui precetti della ragione, che sono i soli che possano garantire la sua conservazione. E poiché i fini dello Stato sono la pace e la sicurezza della vita, così la legge fondamen­tale che limita l’azione dello Stato deriva da questa sua intrinseca finalità, senza la qua­le esso viene meno alla sua stessa natura, cioè allo scopo per il quale è sorto: l’autentico fine dello Stato, secondo Spinoza, è quello di garantire ai singoli l’esercizio della libertà, proprio come la libertà è il fine ultimo del percorso conoscitivo e morale dell’uomo. La libertà tutelata dallo Stato comprende sia la libertà di fede sia, più in generale, la libertà del pensiero e, dunque, della ricerca filosofica. In qualsiasi comunità politica, infatti, l’uomo conserva una parte dei suoi diritti, e il diritto meno trasferibile è proprio la facoltà di pensare e di giudicare liberamente. Su questa facoltà non è possibile alcuna forma di costrizione, in quanto, come lo stesso Hobbes afferma in merito alla sfera privata del suddito, i governi possono tenere a freno anche la lin­gua degli uomini, ma non il loro pensiero.

 

Una prospettiva carica di speranza.

Come ho già avuto modo di scrivere:

“essendo giunto ad un’età per cui mi trovo ad essere pensionato e, guardandomi intorno, inevitabilmente sono indotto a percepire la grave crisi del paese, per cui spontaneamente mi è sorta la domanda, come posso non essere un ingombro, nonostante l’età non più giovanissima, bensì possa essere una possibile risorsa per le nuove generazioni?” (Prof. Alfio Profeti “Le briciole di Pollicino” – Cap. 10, Il diritto fonda Il potere o il diritto legalizza il potere)

Ho cercato, attraverso i precedenti capitoli, di indicare dei momenti di riflessione per stimolare quella riflessione che permetta di orizzontare e favorire la capacità di orientamento col fine di non perdere la strada, quel percorso che faciliti la possibilità di ritrovare il senso di appartenenza, attraverso quella capacità creativa, che per secoli ha contraddistinto il nostro paese, ma che ancora è necessaria per porre le basi di un futuro di democrazia e di prosperità. Ho avuto modo, sia durante la mia professione di insegnante di Filosofia e Scienze Umane, sia in questo periodo, di confrontarmi con alcuni giovani ed ho verificato come l’appello di Calamandrei agli studenti milanesi del Gennaio 1955 sia presente in molti ragazzi. In particolar modo ho avuto la possibilità di rendermi conto come l’importanza della nostra carta costituzionale costituisca motivo di apprensione in quanto si avverte la sensazione che gran parte degli articoli costituzionali siano ancora oggi disattesi. Infatti i movimenti giovanili a favore di un cambiamento del modello economico dominante, premessa per contenere gli effetti del cambiamento climatico del nostro pianeta, come le recenti manifestazioni a favore della pace tra Federazione Russa ed Ucraina, fanno sempre più avvertire l’urgenza di affrontare e risolvere la grave crisi climatica che è tangibile anche nel nostro paese. Tutto questo mi induce a ritenere che quando Edgar Morin, in una recente intervista afferma:

“Tutto ciò che si gioca nell’ambito dell’economia, della politica, dell’azione, della società si gioca fondamentalmente e preliminarmente nella mente umana. […] Per questo necessariamente si deve porre in essere una riforma educativa, “una rivoluzione paradigmatica”, volta a realizzare una politica dell’umanità che abbia come scopo quello di perseguire e sviluppare il processo di umanizzazione, inteso come miglioramento delle relazioni fra gli esseri umani, fra le società umane e fra gli uomini e il loro pianeta.”

In tal senso Morin evidenzia l’importanza dell’azione educativa della scuola, che, facendo leva sull’azione creativa dei docenti come dei giovani, possa perseguire lo scopo di promuovere l’opera di umanizzazione di cui il genere umano sempre più ha bisogno, dove, facendo leva sulla capacità creativa delle nuove generazioni, si possa a confidare sulla categoria dell’improbabile.

 

Prof. Alfio Profeti

 

 

 

2 novembre 2022 - Filosofiamo    No Comments

Machiavelli e Mandeville a confronto: un’opportunità da non sottovalutare.

 

Una lettura occasionale.

Nel leggere, La balera da due soldi, un racconto di Georges Simenon, ho trovato interessante la descrizione dell’ambiente sociale, rappresentato da coloro che frequentano la balera da due soldi, in cui il commissario Maigret inizia le sue indagini, volte ad individuare il responsabile di un omicidio compiuto alcuni anni prima. Questa descrizione mi ha fatto avvicinare simbolicamente la “Mandragola” di Machiavelli con “La Favola Delle Api” di Bernard Mandeville, in quanto in entrambi i testi viene data una rappresentazione della morale e dei costumi, sia pur appartenenti a due momenti storici diversi, ma accomunati, secondo me, dal tentativo di conciliare “vizi privati con pubbliche virtù”, cioè l’utilità personale con il progresso economico della società. Infatti nei due scritti è possibile dedurre i vantaggi di cui beneficerebbe la collettività grazie al lusso di taluni, la volontà di prevalere, di accumulare e di possedere da parte di altri. Infatti il prendere in esame  due momenti storici caratterizzati da un cambiamento epocale: la realtà rinascimentale italiana, testimoniata dall’opera di Machiavelli, che preannuncia l’età moderna, e l’età preindustriale dell’Inghilterra dei primi anni del diciottesimo secolo, oggetto della “diagnosi” da parte dell’olandese Mandeville, corrispondente alla fase del maturo mercantilismo, costituisce un’opportunità per comprendere in quale modo possiamo delineare le condizioni sociali ed economiche volte a  garantire un rapporto rispettoso ed equilibrato tra le persone e l’ambiente.

 

La tesi di Mandeville.

Mandeville è stato considerato non solo filosofo, ma anche versatile poligrafo, notevole conoscitore della letteratura greca e latina oltre che delle maggiori letterature nazionali europee, eminente e apprezzato studioso di medicina, polemista e autore satirico, traduttore, o meglio: interprete in lingua inglese fra l’altro di La Fontaine. Comunque, al di là dell’eterogeneità dell’opera mandevilliana, è indubbio il manifestarsi, nel pensatore olandese, di una personalità sicuramente strutturata, in termini junghiani, in un campo fluido di rapporti tra inconscio personale e coscienza. Possiamo comunque affermare che al centro dell’opera di Mandeville c’è la preoccupazione di  definire il rapporto tra mondo mora­le e mondo civile, tra medicina e società, tra cultura e commercio, tra mon­danità e trascendenza. Posso aggiungere che La favola delle api propone un esame d’insieme della società inglese attraverso un’analisi interdisciplinare, ansi direi, replicando il titolo di una rivista inaugurata nel 1981 dalla Società editrice Il Mulino, per “intersezioni”, cioè esaminando il problema attraverso gli strumenti di indagine propri di quelle discipline che permettono di esaminare su più livelli ciò che è al centro della questione. In questo contesto, a mio avviso, è importante focalizzare l’attenzione sul rapporto tra mondo morale e mondo civile, cioè capire come Mandeville abbia cercato, in quanto medico, di formulare la diagnosi di una società che era al centro di un cambiamento epocale, il passaggio di un sistema valoriale proprio di una economia mercantilista a quello di  una nascente economia capitalista. Infatti, quello che Mandeville viene a prendere in considerazione è ciò che Bauman viene a definire come società liquida, in cui vengono meno quelle certezze necessarie a radicare ogni persona nella società.  Per questo è emblematica la diagnosi che Mandeville formula:

“Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita?[…] È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa.”

 

La tesi di Machiavelli.

Machiavelli vive a cavallo tra il quindicesimo ed il sedicesimo secolo, in una fase storica in cui si vengono a percepire, sia pur in modo inconscio nell’Italia rinascimentale, quei cambiamenti che preannunciano il sorgere dell’età moderna. E’ in questo contesto di cambiamento sociale che dobbiamo comprendere l’impegno del fiorentino di delineare un quadro politico e sociale in cui, sia pur da sognatore, viene ad immaginare un’Italia unita, che ha ormai superato tutte quelle forme di divisione e di contrapposizione che da sempre hanno animato la nostra storia.  A questo proposito, ritengo molto illuminante la tesi di Antonio Gnoli e di Gennaro Sasso in (I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli (Bompiani – 2014 risvolto di copertina) dove Gnoli e Sasso si confrontano sull’attualità del pensiero del fiorentino:

“Il pensiero di Machiavelli si rivela tanto perturbante quanto popolare ed estremo attraverso le domande che Gnoli e lo stesso Sasso vengono a sollevare in merito l’attuale crisi politica, dimostrando come siano ineludibili temi come: il rapporto con l’etica, i confini dell’esercizio dell’autorità, l’errore e la responsabilità personale. In tal senso emerge come Machiavelli venga ad intercettare e ad indagare la precarietà di una società esposta alla decadenza.”

ma devo sottolineare come questo senso di disorientamento e bisogno di nuove e più salde certezze, che si propaga in tutto l’arco temporale della rivoluzione scientifica, è ben rappresentato nel frontespizio della prima edizione 1620 del Novum Organum di Francesco Bacone, ove appare l’immagine raffigurante un veliero che oltrepassa le colonne d’Ercole, intraprendendo il suo viaggio verso l’ignoto, mentre , all’orizzonte, In mare aperto, si intravede un’altra nave, a significare che l’avventura è già cominciata.  L’analisi machiavelliana della realtà politica del tempo, come dell’etica e della morale religiosa dominante, è presentata ne “Il principe”, ma la ritroviamo nella sua traduzione pratica nella stessa commedia “La mandragola”. Nonostante che appartengano a due generi diversi, il Principe e la Mandragola mostrano numerosi elementi di contatto, primi fra tutti la logica dell’utile e l’intelligenza ad essa applicata. Inoltre in entrambe le opere emerge l’intento palese di analizzare e mostrare la verità effettuale dei mezzi con cui l’uomo arriva a raggiungere i suoi fini, spostando la prospettiva dallo scenario vasto della politica a quello della vita privata. Mentre  ne “Il Principe” lo scopo dell’agire politico viene rappresentato nei termini  di un proposito elevato, i personaggi della Mandragola mettono in campo tutte le loro migliori energie, le loro virtù, per uno scopo sia pur greve e volgare, ma che viene esibito  come la realizzazione del bene comune.

 

Cosa suggerisce il confronto Machiavelli Mandeville?

Nella prefazione dell’edizione del 1723 de “La favola delle api”, Mandeville chiarisce come il suo intento, nello scrivere “La favola delle api” è stato semplicemente quello di analizzare la natura umana, cioè chi esamina la natura umana con gli occhi dell’anatomista potrà riscontrare come quello che rende l’uomo socievole sono per appunto gli attributi più vili ed odiosi, cioè come direbbe Machiavelli le qualità umane più grevi e volgari, ma che vengono presentate come la forma appropriata di realizzazione del bene comune. In questo senso è possibile riscontrare in entrambi una condivisione di intenti che ci induce a sollevare la domanda: come è possibile, accettando questa diagnosi, favorire la realizzazione di una convivenza in cui, metaforicamente, la natura propria del Signor Hyde si traduca in quella totalità, aspirazione presente nella natura propria del Dottor Jekyll?

Questa domanda inevitabilmente apre la nostra analisi su un orizzonte più articolato, in cui emerge con forza il contributo di Jung.

 

Il contributo di C. G. Jung

Jung scrive: “Bisogna ammettere che il rilievo dato dal Cristianesimo alla spiritualità porta inevitabilmente a una intollerabile svalutazione dell’aspetto fisico dell’uomo, producendo così una sorta di caricatura ottimistica della natura umana” (C.G. Jung, Symbols of Transformation: An Analysis of thè Prelude to a Case of Schizophrenia, 2a ediz., trad. R.F.C. Hull, Bollingen Series XX, vol.5. (Princeton: Princeton University Press, 1956), p.71).

In altre parole secondo Jung l’ombraè la parte repressa e dominata dall’Ego e raffigura quello che non siamo capaci di riconoscere di noi stessi. Infatti è proprio attraverso gli abiti che tendiamo a nascondere quel corpo, che di per sé rivela quello che rinneghiamo a livello conscio. In altre parole proponiamo di noi quella maschera con cui celiamo la nostra rabbia, l’ansia, la tristezza, le costrizioni, le depressioni o i nostri bisogni, smarrendo in questo modo la percezione del corpo. In questo senso una vita fondata unicamente sull’esercizio totalizzante della ragione nega quella vitalità primitiva e naturale che costituisce, secondo Rousseau, la condizione originaria della natura umana. A questo punto ritengo importante precisare come per Jung, se in un primo approccio l’ombra viene a significare l’inconscio personale, in ultima istanza, acquista caratteristiche peculiari, nel senso che viene ad includere l’inconscio personale, nel rappresentare tutto l’insieme degli atteggiamenti dell’individuo non sviluppati. Infatti per Jung la natura dell’ombra è quella di un’unità complessa e multiforme, nel senso che ciò che definiamo come il negativo è parte dell’esperienza umana, compreso unitamente sia sul piano individuale o personale nelle modalità di tendenza all’infantilità o all’autodistruttività, sia nei termini di incubi notturni o nelle visioni, come nelle fantasie più abiette e deprecabili, sia, infine, nelle forme generali di un destino crudele o per sino della morte. Quindi, se possiamo affermare che per Jung l’ombra viene ad includere l’inconscio personale, nel rappresentare tutto l’insieme degli atteggiamenti dell’individuo non sviluppati, altresì potremmo ritenere che la possibilità che la natura propria del Signor Hyde, intesa come ombra, si possa integrare, come processo d’individuazione, cioè come maturazione psicologica della personalità del Dottor Jekyll, strutturata nella relazione dialogica tra inconscio personale e coscienza, dove ogni aspetto della dimensione onirica inconscia deve essere messa in relazione con la personalità del sognatore, nella misura in cui il linguaggio dell’inconscio è costituito dai simboli (i personaggi), mentre i sogni sono i suoi mezzi di comunicazione. Per questo un esame dell’uomo e dei suoi simboli diventa in effetti un esame del rapporto dell’uomo col proprio inconscio. Infatti, per Jung, l’inconscio è la grande guida, il grande amico e consigliere del conscio.

 

Alcune considerazioni sul valore della tesi di Machiavelli e di Mandeville

Alla luce della diagnosi sulla natura umana di Mandeville e di Machiavelli emerge la necessità di ripensare il presente per capire come “Il crollo finanziario, l’emergenza climatica e la pandemia di Covid-19 siano l’esito di una progressiva dissoluzione del sistema valoriale tradizionale in nome di un unico valore, quello del profitto ad ogni costo […] e come tutto questo possa suggerirci come intraprendere una nuova direzione da avviare, verso un’economia orientata alla crescita ma attenta al suo contenuto e alla sua qualità.” (Carney Mark – Il valore e i valori. Un manifesto per ripensare il nostro presente Ed. Mondadori 2021pag.3)

Tuttavia è importante precisare come Machiavelli, anche se viene a condividere la diagnosi di Mandeville, nella sua analisi propone una prospettiva meno negativa, cioè il fiorentino evidenzia come l’uomo ha nelle proprie mani la possibilità di contenere gli effetti di un destino avverso. Per questo mi sembra appropriato prendere in considerazione una metafora che ci propone Catozzella Giuseppe nel suo racconto dal titolo “Alveare”:

Immagina un alveare.

Ne ho avuti due, gemelli, nati di nascosto nella mia camera, in quei trenta centimetri scarsi di muro che separano i vetri della finestra dalle persiane. Li ho lasciati crescere, li ho coltivati, ogni ora del giorno ho controllato da sotto, scostando le tende, il brulicare operoso delle piccole api, le loro cellette esagonali che aumentavano. Ogni tanto aprivo i vetri, mi divertivo a stuzzicarle. Con una bacchetta di ferro piatta e lunga un metro, che avevo sfilato dall’orlo inferiore di una tenda, smuovevo uno dei due alveari, lo toccavo a ripetizione con la punta dell’asticella. Le api non sembravano rendersene conto, non si allarmavano. Eppure dovevano emettere un suono inudibile perché dopo pochi secondi, dal piccolo orto del mio vicino di casa, arrivavano le compagne in soccorso. A quel punto io richiudevo la finestra e le guardavo volare a scatti e convulse, ruotare attorno al loro quartier generale e, completata la ricognizione, ritornare da dove erano venute. A lungo ho lasciato che le loro abitazioni si impilassero l’una sull’altra, si affiancassero, si accatastassero, si accumulassero. Crescevano a vista d’occhio, incontrollabili. Ci ho messo molto ad accorgermi degli alveari e, quando è successo, erano troppo grandi per una rimozione immediata. Così ho chiuso i vetri, per creare una gabbia, e sono rimasto a osservare: prese singolarmente, le api sono piccole, ma tutte insieme diventano grandi, formano come un unico organismo che si ingrossa in silenzio. Si muovono come rabdomanti e scelgono i luoghi che reputano opportuni per sviluppare i loro patrimoni, senza chiedere il permesso. Lavorano senza sosta: in un batter d’occhio sono lì, hanno costruito, si sono ricavate degli spazi. In poco tempo i loro due magazzini-laboratorio sono cresciuti fino a un diametro di circa cinquanta centimetri, erano già quasi sul punto di toccarsi. Le api continuavano ad andare avanti e indietro, si muovevano instancabili, per edificare il loro futuro, la loro ricchezza, la loro dote. Si erano appropriate di parte della mia camera, e io ho iniziato a pensare che non avrei mai avuto il coraggio di fermarle, che si sarebbero conquistate l’intera casa, avrebbero cominciato da quella stanza per poi prendersi tutto. Dopo qualche mese i due alveari erano diventati uno solo, enorme. Un mostro senza forma, una sorta di viscido baco gigantesco, popolato da una nube di minuscole ali infaticabili che avevano perso di vista l’armonia del disegno originario, forse per il fatto che le due costruzioni si erano unite a loro insaputa in una grande larva bitorzoluta, rigonfia e ipertrofica da un lato, affusolata dall’altro. Anche il vento, che aveva soffiato forte per tutta la primavera, doveva aver cesellato quella creazione. Un impressionante fagiolo di bava umida ricoperta dal frastuono invisibile di migliaia di api in movimento, di ronda incessante dal giardino di sotto fino al mio appartamento. Spesso mi sono chiesto perché avessero scelto proprio la mia casa. Credo di aver trovato la risposta. In comune le api, la loro massa sterminata, e la mia casa hanno il silenzio. Non possono che agire nel più assoluto silenzio, scolpite da migliaia di anni di evoluzione che ha tolto rumore alle loro movenze, al loro sostare, alle loro tecniche di insediamento.” (Catozzella Giuseppe Alveare Marzo 2011 – p. 1-2)

In realtà Catozzella, attraverso il suo racconto, viene a presentarci come la criminalità organizzata, in particolar modo quella calabrese e non solo, viene ad insinuarsi nei gangli vitali del paese, compromettendo le potenzialità di sviluppo dell’economia nazionale.

 

Il pensiero di Zygmunt Bauman

Secondo Bauman la condizione di vita dominante che ci appartiene è quella della società moderna-liquida, nel senso che la realtà in cui vivono gli uomini cambia più rapidamente delle trasformazioni dei modi di agire degli uomini stessi, cioè le condizioni di vita sono al centro di un cambiamento più veloce delle capacità di adattamento dell’essere umano, per cui ogni individuo deve correre con tutte le proprie forze per restare nella stessa posizione. Negli ultimi sessant’anni la diffusione del benessere ed il dilagante consumismo hanno profondamente scosso il vecchio ordine, concretizzando nuove libertà e sviluppando una mentalità “eudemonistica”, fondata sulla ricerca incessante di piaceri momentanei e per questo non appaganti. Questa società senza certezze, secondo Bauman, conduce inevitabilmente da un lato ad un indecifrabile caos e dall’altro alla reazione di gruppi sociali che inseguono nuove protezioni e chiusure. Per Bauman la ricerca di nuovi equilibri richiede molto tempo e soltanto i giovani saranno i protagonisti di questo cambiamento, a condizione che le nuove generazioni prendano di petto la sfida dell’incertezza, rinunciando all’illusione che la vita possa essere una sequenza continua di “piaceri e regali”.

Bauman, in un suo saggio pubblicato nel 2013 ha scritto:

“Di norma, i bambini vengono alla luce in un mondo decisamente diverso da quello dell’infanzia ricordata dai loro genitori, e diverso da ciò che questi erano preparati e abituati a considerare come modello di ‘normalità’; loro, i figli, non potranno mai visitare il mondo scomparso che i loro genitori conobbero da fanciulli. Ciò che per una generazione può essere considerato il modo ‘normale’ in cui ‘vanno’ o ‘vanno fatte’ le cose, e in cui quindi ‘dovrebbero’ andare o essere fatte, può essere considerato da un’altra una sorta di aberrazione: uno strappo alla norma, qualcosa di bizzarro o addirittura illecito e insensato, scorretto, abominevole, detestabile e grottesco, che esige disperatamente di essere rettificato. (Bauman Cose che abbiamo in comune Ed. Laterza 2013 p. 9)

Per questo lo stesso Bauman viene a precisare:

La sopravvivenza di tale società e, quindi, il benessere di coloro che ne fanno parte dipendono dalla rapidità con cui i prodotti vengono conferiti alla discarica e dalla velocità e dall’efficienza con cui gli scarti vengono rimossi. […]La costanza, la resistenza e la vischiosità delle cose, inanimate ed animate, costituiscono il più sinistro e grave dei pericoli, sono la fonte delle peggiori paure e il bersaglio delle aggressioni più violente.”

(Bauman La vita liquida Ed. Laterza 2008 pag. 3)

Considerazioni conclusive.

Il racconto di Catozzella fa ricordare come Machiavelli venga a porre l’accento sul fatto che la nostra società possiede i mezzi  a tutti gli effetti, per contenere  ciò che può compromettere la convivenza civile, cioè quel processo dialettico tra libertà privata e libertà pubblica che è la condizione fondamentale di una società democratica. La speranza di un futuro migliore, per questo, sta nella possibilità di realizzare “l’utopia sostenibile” di quel cambiamento che, in modo ancora poco visibile per il grande pubblico e per gran parte dei politici, sta avvenendo in tante persone, soprattutto nei più giovani, in tante imprese, in tanti governi, che vedono nella conversione dell’attuale modello di produzione, di consumo e di organizzazione della società una straordinaria opportunità, anzi l’unica opportunità da cogliere per evitare il collasso prossimo venturo e migliorare il proprio futuro. Nello stesso tempo è importante sottolineare che non possiamo disconoscere, junghianamente parlando, la nostra ombra, cioè quel passato di guerra civile, di lutti, di incontenibili sofferenze il cui frutto è stata la nostra carta costituzionale. Questa ombra è quella memoria che continuamente ci suggerisce su quali binari deve procedere l’Italia, su come ogni italiano è chiamato responsabilmente a caricare sulle proprie spalle il futuro del proprio paese.

Come ebbe modo di dire Calamandrei nel Gennaio 1955 agli studenti milanesi:

La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci

dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.”

Per tutto questo sono fermamente convinto che, nel momento in cui ognuno avrà la forza ed il coraggio di superare le proprie incertezze, le proprie ansie, le proprie paure, l’Italia, come in passato, sarà in grado di porre le basi di una nuova forma di convivenza civile, rispettosa della dignità di ogni persona.

 

Prof. Alfio Profeti

 

 

17 ottobre 2022 - Filosofiamo    No Comments

L’istituto della rappresentanza come maschera

 

Un’opportunità di riflessione da non perdere.

In un suo articolo, uscito su rivista di filosofia on-line nel Marzo 2006, Claudio Bonvecchio coglie lo spunto dalla fiabaBiancaneve e i sette nani” per esaminare il tema della maschera, evidenziando come le due maschere, la regina e Biancaneve, possano essere considerate le maschere archetipiche del femminile, cioè della donna. Buonvecchio, altresì, ponendo l’attenzione, nello stesso articolo, sulla maschera ed il suo ruolo, evidenzia “come il tema dell’ombra in Jung costituisca un tema importante per la Psicologia analitica, in quanto l’ombra rappresenta quell’aspetto inconscio che deve essere reso conscio onde evitare che gravi sull’uomo interagendo, in forma proiettiva, su di lui “(cfr. J. Jacobi, La psicologia di C. G. Jung, trad. it., Boringhieri, Torino, 1973 pp. 137- 143). A questo proposito, in “L’uomo e i suoi simboli – Introduzione all’inconscio pag. 7 – 9, nell’importanza dei sogni”, Jung evidenzia come il linguaggio dell’uomo sia ricco di simboli come di segni, di immagini che, in senso stretto, non sono descrittivi, cioè non sono dei semplici simboli, ma solamente dei segni che hanno il compito di indicare gli oggetti a cui sono riferiti. In realtà il simbolo non è altro che un termine, un nome o una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni, ma che nel contempo indica qualcosa di vago, di sconosciuto e di inaccessibile. In altri termini per Jung una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio ed immediato: l’uomo non percepisce o mai comprende nulla completamente, perché tutto ciò che può conoscere è possibile solo attraverso la propria completa capacità percettiva, dipendente in ogni modo dal numero e dalla qualità dei propri mezzi percettivi. Tuttavia l’uomo può giungere solo ad un limite di certezza al di là del quale non è più in grado di conoscere. Per questo ogni nostra esperienza contiene un numero infinito di fattori sconosciuti, nella misura in cui non siamo in grado di conoscere la natura sostanziale della materia in sé. In effetti, quando noi ci muoviamo nello spazio, cercando di concentrare la nostra attenzione su tutto ciò che accade intorno a noi, taluni eventi non vengono registrati consapevolmente, rimanendo al di sotto della soglia della coscienza. Questa parte della realtà può apparire sottoforma di sogno, di immagine simbolica. Secondo questo tipo di ragionamento si giustificherebbe l’esistenza di due “soggetti”, o di due personalità all’interno dello stesso individuo. L’uomo ha concretizzato la propria civiltà dopo numerosissimi secoli, ma questa evoluzione è ben lungi dall’essere giunta al suo completamento. La nostra psiche è parte della natura ed i suoi enigmi sono infiniti. La coscienza è semplicemente una recente conquista della natura ed è ancora in una fase sperimentale, cioè è caratterizzata da un alto grado di fragilità, da una qualche dissociazione della coscienza. Come afferma Jung: il celebre etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl ha definito «partecipazione mistica» ciò che l’uomo ha, oltre alla propria anima, come ritengono le popolazioni primitive, è un’«anima della foresta», come anche quest’anima, del resto, viene ad incarnarsi in un animale selvaggio o in un albero, con i quali l’individuo umano ha una specie di identità psichica. In tal senso, secondo i primitivi, l’uomo che è considerato fratello del coccodrillo in realtà è immune dall’assalto dei coccodrilli quando venga a nuotare in un fiume. Pertanto l’offesa che viene fatta alla foresta o alla specie dei coccodrilli è un’offesa nei confronti dell’uomo. In questa prospettiva ogni singola persona è composta di diverse unità fra loro collegate, ma singolarmente distinte. Anzi la psiche dell’individuo è tutt’altro che una unità perfettamente sintetica; al contrario essa rischia di frantumarsi anche troppo facilmente sotto l’urto di emozioni violente.

Il contributo di Benjamin Constant.

A questo punto, mi viene spontaneo porre l’accento sul contributo di Benjamin Constant che, tra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo, venne ad intrecciare in modo indissolubile la propria riflessione teorica con la partecipazione alle vicende storico-politiche francesi del Direttorio e della Restaurazione. Benjamin Constant nel famoso Discorso sulla libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, scritto in occasione delle elezioni al parlamento francese del 1819, viene a chiarire la differenza tra la libertà degli antichi e quella dei moderni. Infatti per Constant la libertà dei moderni si identifica, in primo luogo, con il requisito dell’indipendenza individuale dal potere: sta a noi usare questa indipendenza come meglio crediamo. In secondo luogo, a questo insieme di libertà civili,”, che vengono definite libertà personali e che costituiscono il cuore della libertà moderna, necessariamente deve essere associata la libertà politica, definita come libertà pubblica, che consente ad ogni elettore di prendere parte alle decisioni collettive attraverso le elezioni dei propri rappresentanti. Per questo l’Istituto della rappresentanza politica assume una funzione decisiva a garanzia del carattere democratico dello Stato.

Una possibile interpretazione junghiana della tesi di Constant.

Gli avvenimenti, conseguenti alle elezioni del 25 Settembre scorso, che hanno caratterizzato il momento dell’elezione dei presidenti del Senato e della Camera dei Deputati del nostro paese, evidenziano come la maschera della rappresentanza politica, in questa fase storica in cui emerge un processo disgregativo della società nei termini di liquidità della società stessa e, quindi, nel venir meno di una qualsiasi certezza del domani, è al centro di una contestazione nella misura in cui si viene ad obiettare sul valore che possa avere la capacità da parte di ogni eletto di rappresentare ogni cittadino e, quindi, di affrontare e risolvere i problemi che nella quotidianità ognuno di noi deve affrontare.

Considerazioni conclusive.

Le parole attribuite ad Eraclito da alcuni suoi interpreti: “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e da cui non deriva nessuna strada”, suggeriscono alcune domande su come i rappresentanti parlamentari appena eletti si propongano di svolgere il proprio compito a favore del Paese. Per questo ritengo sia opportuno prendere in considerazione quanto Victor Hugo ebbe modo di affermare il 5 aprile 1850 all’Assemblea legislativa di Francia:

«Noi dobbiamo far uscire una società nuova dalle viscere della società antica… Perciò non abbiamo il tempo per odiarci. L’odio è uno sciupio di forza e di tutti il peggiore. Riuniamo dunque fraternamente gli sforzi in un comune intento: il bene del paese. Cerchiamo insieme e cordialmente la soluzione del formidabile problema di civiltà, che ci è posto, e che contiene, secondo il modo con cui lo risolveremo, le più fatali catastrofi o il più luminoso avvenire”.”

Per tanto, facendo mio l’appello di Victor Ugo all’Assemblea legislativa di Francia del 5 Aprile 1850, rivolgo l’invito ai nuovi rappresentanti parlamentari del Paese Italia, cioè l’appello a superare tutti insieme questo grave momento, mettendo da parte tutto ciò che alimenta la divisione, il conflitto, la perdita del bene comune, cioè il benessere, il futuro degli italiani, in conformità del dettato della nostra Carta Costituzionale.

 

Prof. Alfio Profeti

 

11 ottobre 2022 - Filosofiamo    No Comments

Quale società, quali valori?

 

Il presupposto di un’analisi sociale.

Dalla constatazione del degrado dei valori etici nella nostra società nasce il bisogno di riflettere su questo fausto processo disgregativo affinché nell’opinione pubblica si avverta la necessità di interrogarsi sulle cause e su quei possibili ed opportuni rimedi da concretizzare. Taluni studiosi, sulla base delle proprie esperienze professionali, hanno focalizzato l’attenzione sulle cause della negazione dei valori e, quindi, del processo disgregativo della stessa società, proponendo alcuni antidoti e principi guida per il ripristino di quella integrità morale ed etica di fatto perdute. Per questo si è avvertita la necessità di spronare, tutti coloro che hanno deciso di dedicare il proprio impegno al servizio del bene pubblico, affinché la loro attività non ignori il senso della giustizia, che necessariamente deve derivare dal rispetto dell’uomo, della natura umana, quale fonte di diritti inalienabili, che non possono essere né compressi né tantomeno cancellati da una volontà politica, anche se eventualmente fosse maggioritaria. Infatti esistono dei riferimenti etici che sono intangibili, che riguardano il valore della persona, la sua libertà di pensiero, l’esercizio di una fede religiosa, il dovere di solidarietà verso le altre persone, specialmente quelle più fragili e bisognose, che in fondo rappresentano la motivazione più intima dell’agire politico.

Le cause storiche.

Nel mondo attuale, a partire da quanto ha caratterizzato il XXI secolo, purtroppo, da vicende terribili come gli attentati di New York sembra siano venuti meno le contrapposizioni ideologiche che hanno contraddistinto il Novecento, definito da molti il secolo delle ideologie, dello scontro fra sistemi contrapposti, dove ognuno tende ad avanzare una propria filosofia di vita, una concezione chiusa alla mediazione e a ogni rapporto esterno. In conseguenza a tutto questo, oggi più che mai avvertiamo la necessità di fare a meno degli “steccati” che da un lato hanno diviso uomini e Stati del secolo scorso, come quegli scontri, quelle guerre sanguinose che dall’altro hanno caratterizzato in modo negativo il nostro continente. Altresì, non si può certo pensare che il venire meno di ideologie che hanno passionalmente infiammato l’animo di milioni di persone, possa essere sostituito con l’assoluta anonimia, con la mancanza di identità, di un’eredità culturale e valoriale, con l’incapacità di riconoscersi in qualcosa di più duraturo rispetto a ciò che si delinea come l’insieme degli affanni quotidiani o del cinico pragmatismo che inevitabilmente preme sulla nostra quotidianità.

L’inevitabilità di una riflessione.

Sulla base di questi  presupposti, emergono considerazioni quali il fatto che la semplice osservazione e valutazione della concreta e dolorosa realtà quotidiana, possa costituire la motivazione, l’occasione di una riflessione che ognuno può realizzare sia nel proprio cuore e condividere con gli altri, favorendo la consapevolezza del valore e del significato dell’impegno costruttivo praticato in ogni giorno, evitando ciò che Calamandrei indicava come limite ricorrente delle nuove generazioni, l’indifferentismo ed il relativismo, animando e sostenendo, quindi, l’affermarsi di quei valori  etici che sono intangibili, che riguardano la dignità ed il decoro di ogni persona, la libertà di pensiero, l’esercizio di una fede religiosa, il dovere di solidarietà verso le altre persone, specialmente quelle più deboli e bisognose, che in fondo rappresentano la motivazione più intima dell’agire politico.

Il giudizio di Bauman.

In effetti, questo processo degenerativo della società, che Zygmunt Bauman definisce nei termini di società liquida, provoca inquietudini, dà luogo a stati d’animo ansiosi per un domani incerto, carico di incognite e fonte di paure.

La circostanza del senso del passato.

Hegel (1770 – 1831) dopo essersi laureato, trovandosi nella necessità di trovare un lavoro, emigra a Berna, in Svizzera e lì, durante la sua permanenza, viene ad esprimere (1793 – 1796), alcune sue riflessioni nelle lettere che scrive ai suoi vecchi compagni di studi.   Nella terza lettera 1795, che scrive all’amico Schelling, dopo essersi soffermato nella descrizione di alcune consuetudini della borghesia bernese, scrive: “I filosofi hanno insegnato, adesso spetta ai popoli non far calpestare i propri diritti nella polvere”.

Ma che cosa hanno insegnato i filosofi?

Concretamente Hegel, come tanti altri filosofi, riteneva necessario far percepire agli uomini ciò che essi non sanno comprendere, perché si limiterebbero ad identificare la realtà con la sua forma esteriore e non con ciò che essa è veramente.

Le premesse del nichilismo.

Già Gorgia da Lentini (485 – 376 a.C.),  partendo dal presupposto condiviso nella cultura antica secondo cui la percezione costituiva la modalità originaria di accesso alla realtà esterna e alla sua conoscenza, contrariamente a coloro che pensavano che fosse possibile non solo la conoscenza della realtà naturale, ma pure la spiegazione certa e inoppugnabile della stessa realtà come del mondo, ebbe modo di affermare “nulla è; se anche qualcosa fosse non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile”, negando di fatto la pretesa umana di fornire una rappresentazione e, quindi, una conoscenza oggettiva della realtà. Per questo Gorgia è ritenuto colui che orienta ed inizia il percorso del pensiero occidentale, che in tutta la sua storia si è allontanato dalla verità dell’essere, e nell’età della tecnica perviene all’esito di un radicale, coerente, ma, proprio per questo, assai potente, nichilismo.

Senso e funzione del nichilismo.

Tuttavia se il nichilismo, come termine, ha fatto la sua comparsa a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento nelle controversie che hanno caratterizzato la nascita dell’idealismo tedesco, solo nel pensiero del Novecento è emerso come problema rilevatosi come  espressione dei più diversi tentativi culturali volti a sperimentare la potenza del negativo e a viverne le conseguenze, per cui inevitabilmente tutto ciò ha fatto emergere il malessere profondo che affiora dal “processo d’individuazione” proprio del nostro tempo.

Il contributo di Carl Gustav Jung.

A questo proposito è bene precisare che Jung intende per individuazione quel processo di differenziazione che ha come meta l’evoluzione della personalità individuale, per cui essa rappresenta lo sviluppo delle particolarità di un individuo, sulla base della sua disposizione naturale. Se l’individuazione viene a costituire, secondo Jung, una “via individuale” che può deviare rispetto a quella consueta, essa, però, deve condurre ad uno spontaneo riconoscimento delle norme collettive. L’individuazione rappresenta pertanto un processo di elevazione spirituale: essa porta infatti ad un “ampliamento della sfera della coscienza”. (C. G. Jung, Tipi psicologici)

Il dibattito attuale sul disagio giovanile.

In ogni caso, secondo Umberto Galimberti, il disagio giovanile ha come causa una sorta di crisi “culturale”, perché il futuro che la nostra cultura prospetta ai giovani non è una promessa come lo era per i loro padri, ma qualcosa del tutto imprevedibile, che non retroagisce come motivazione capace di sostenere l’impegno richiesto dallo studio in vista di una professione o di un lavoro per il quale ci si sente motivati. (Galimberti Umberto – 2018 – La parola ai giovani_ Dialogo con la generazione del nichilismo attivo)

Secondo Riesman, nelle moderne società occidentali, in particolare nei luoghi dove si esplicano le pratiche di consumo (cinema, supermercati ecc.), l’individuo risulta massificato, spersonalizzato, omologato ai suoi simili. (David Riesman-La folla solitaria-Il Mulino 1999)

Addirittura secondo Gustavo Pietropolli, nel saggio “L’insostenibile bisogno di ammirazione”, per gli adolescenti, l’incessante ricerca di ottenere una foto che ci ritragga in vicinanza al personaggio noto, cioè tramite il selfie che costituisce  per l’autore e per i destinatari un tentativo di cogliere la realtà nella sua velocissima trasformazione, per cui il selfie viene inteso  come un documento legittimo, quasi dovuto, concernente la vita di relazione e le occasioni di incontro del protagonista, è in effetti la testimonianza di un disagio, nella forma di un tentativo di socializzare il privato trascinandolo a viva forza sulla scena sociale, invitando tutti al banchetto dell’ultima gag che avrebbe l’ambizione di essere cautamente divertente. (Pietropolli Charmet Gustavo L’insostenibile bisogno di ammirazione – Laterza 2018)

 

Pietropolli, in “Fragile e spavaldo” aggiunge:

Uno dei possibili motivi di sconcerto da parte degli adulti può dipendere dall’ambiguo impasto di fragilità e spavalderia che caratterizza una parte molto consistente degli attuali adolescenti. Naturalmente la fragilità è sempre stata una caratteristica invariante dell’adolescente: l’adolescenza anzi dovrebbe servire proprio a temprare il carattere rendendolo forte e non più fragile e contradditorio. La fragilità degli adolescenti di oggi ha però qualche caratteristica di novità rispetto alle generazioni precedenti. Perché è una fragilità che si fonda sull’impressione di avere una missione speciale da compiere, e che colloca l’adolescente fuori dal suo tempo rendendolo spesso disinteressato alle vicende che dovrebbero invece riguardarlo da vicino. Gli adolescenti pensano di doversi dedicare allo sviluppo della loro bellezza, non solo fisica, ma psichica, sociale, espressiva. Sembrano convinti che la loro segreta missione abbia diritto di precedenza rispetto ad altre incombenze e che, in caso di conflitto fra questa e le esigenze avanzate dall’ambiente in cui vivono, non debba esserci dubbio su cosa privilegiare. Il bisogno di curare la loro bellezza li rende permalosi, esposti al rischio di sentirsi poco apprezzati, umiliati e mortificati da un ambiente che non dà loro il giusto riconoscimento. Quindi fragili perché esposti alla delusione derivante dal divario fra aspettative di riconoscimento e trattamento reale da parte di insegnanti, coetanei, genitori. Fragili perché addolorati dall’umiliazione e dal rischio di doversi troppo spesso vergognare del proprio corpo e della propria, a volte irrimediabile, invisibilità sociale.”

(Pietropolli Charmet Gustavo Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi 2010)

Le considerazioni di Jung.

In sostanza questi esiti nei termini del processo di individuazione, cioè di realizzazione delle proprie potenzialità e di integrazione delle varie componenti del sé, è un percorso che dura tutta la vita e si profila come il compito principale di ogni persona. Un tratto fondamentale dell’essere umano nel suo processo di sviluppo è la realizzazione dell’autoconsapevolezza: essere coscienti di esistere e riflettere su di sé. Infatti il sé (inteso come conoscenza di se stessi, che si esprime in pensieri e discorsi) si forma nell’interazione con gli altri, in quello scambio affettivo e comunicativo con le figure parentali e amicali così importante per lo sviluppo psicologico fin dal primo anno di vita. Per questo Jung ci invita a considerare in modo positivo l’intero arco della vita, anche la seconda metà, rifiutando una visione della vecchiaia come decadi­mento. In altre parole il processo di individuazione, per Jung non È altro che il processo di integrazione in un Sé unitario delle diverse parti della personalità.

I risultati della ricerca in ambito psicologico.

Gli psicologi sono ben consapevoli che il compito di definire la propria identità, ovvero di rispondere in modo soddisfacente alla domanda: “chi sono?” inizia ben prima dell’a­dolescenza, ma ritengono che in questa età si presenti in modo particolarmente urgente e del tutto originale. In primo luogo l’adolescente ha rinnovati riferimenti e nuove fonti di informazione: per il bambino infatti quello che conta è l’opinione dei genitori, per cui il suo concetto di sé corrisponde a quello che essi pensano di lui. L’adolescente invece è quotidianamente a contatto con una pluralità di persone, in situazioni e ambienti diversi, da cui provengono informazioni talvolta contraddittorie che egli dovrà integrare in una visione nuova e coerente: in primo luogo dovrà fare i conti con quello che gli presenta lo specchio, ovvero con il proprio corpo, di cui lo specchio riflette tutti i rapidi cambiamenti legati alla pubertà; in secondo luogo dovrà rielaborare quello che apprende nei contesti sociali di riferimento: la famiglia, la scuola, le associazioni ma soprattutto il gruppo dei pari. La famiglia è ancora il principale ambiente di vita, ma l’autorevolezza dei genitori viene messa in discussione: essi sono le prime “vittime” del processo di elaborazione di un’identità autonoma, in quanto sono considerati interpreti di idee superate e di una mo­ralità fatta solo di proibizioni da cui occorre emanciparsi. Il giudizio dei coetanei invece per il ragazzo è molto importante. Egli sa che per entrare e restare in un gruppo a cui tiene moltissimo dovrà superare una sorta di esame collettivo che concerne il suo aspetto fisico, la simpatia, l’intelligenza, l’abbigliamento, il talento nella musica o nel ballo: si impegna perciò a tirare fuori il meglio da se stesso per essere accettato, amato ed eventualmente eletto a leader del gruppo. Vi sono poi figure di adulti significativi che in età adolescen­ziale acquistano un’importanza che prima non avevano: possono essere insegnanti par­ticolarmente preparati e disponibili al dialogo, oppure allenatori sportivi, artisti, leader politici o guide spirituali.

L’identità in età adolescenziale.

In mezzo a tutti questi soggetti l’adolescente mette in atto i due processi essenziali alla costruzione di un’identità nuova, più matura e articolata di quella infantile: l’identificazione con modelli di riferimento e la sperimentazione di idee, incontri, interessi, relazioni affettive. In entrambi questi processi l’adolescente dimostra la propria creatività, adot­tando comportamenti inediti e facendo esperienze che non sempre gli adulti approvano, anche se non sconfinano nell’illecito: un abbigliamento stravagante, un hobby coltivato con passione esclusiva, una certa tendenza all’isolamento nella propria stanza di fronte al computer, l’alternare esplosioni di allegria e socialità a momenti di malinconica solitudine possono suscitare un ingiustificato allarme negli adulti. Il ragazzo potrà così essere eti­chettato come ribelle, trasgressivo, asociale, instabile, incoerente, “difficile”. Si tratta nella maggior parte dei casi di sperimentazioni innocue e necessarie a mettere alla prova se stessi indossando diverse maschere sociali, che gli adulti in ogni caso dovranno osservare con una certa attenzione, allo scopo di cogliere tempestivamente dei segnali preoccupanti di allontanamento dalla realtà o di rischio di dipendenza.

Il motivo dell’inquietudine adolescenziale.

Nell’età dell’adolescenza l’interrogativo sulla propria identità emerge in modo urgente e originale: in questa fase di sperimentazioni e identificazioni risulta estremamente importante il gruppo dei pari, con cui il ragazzo si confronta e dal quale si aspetta approvazione e conferme. L’età adolescenziale, infatti, proprio per il suo carattere di sperimentazione, può avvicinare i giovani a comportamenti rischiosi per la salute fisica e psichica: fumare, bere alcolici, mangiare troppo o troppo poco, immergersi totalmente in una passione – ad esempio i social network – trascurando tutto il resto, guidare la motocicletta in modo imprudente, sottoporsi a tatuaggi o applicazioni di piercing senza controllare il rispetto delle norme da parte di chi effettua tali pratiche.

Gli esiti della ricerca psicologica.

Le ricerche dello psicoanalista Erik Erikson (1902-1994) e del suo continuatore James Marcia hanno come oggetto la costruzione dell’identità nell’adolescenza e costituiscono tuttora dei punti di riferimento preziosi. Per lo psicologo canadese James Marcia, continuatore di Erikson, il compito di sviluppo principale dell’adolescente è la definizione della propria identità. Il giovane si muove in due direzioni: quella dell’esplorazione e quella dell’impegno. Esplorare signi­fica fare esperienze, scegliere tra le molte possibilità che la vita offre; impegnarsi significa scegliere e successivamente affrontare con serietà il percorso scelto. Ma qui emerge la difficoltà che si rivela come la causa del disagio che i giovani vivono sulla propria pelle, in quanto l’adolescente, trovandosi nella condizione di non provare, di non scegliere, di non impegnarsi: conseguentemente vive in una condizione di “moratoria” (so­spensione, attesa); è questa una condizione frequente nei periodi di crisi economica e sociale, di cui i giovani sono tra le prime vittime. Tuttavia è proprio ciò che viene definita come l’identità diffusa, che si risolve nella massima esplorazione e nel minimo impegno. A questo proposito il ruolo dei valori, come riferimenti ideali che guidano la vita di una persona, risulta di particolare rilevanza nell’età adolescenziale, fase nella quale l’individuo acquisisce le competenze e i requisiti necessari per assumere particolari responsabilità e riorganizzare il proprio Self. Secondo Marcia, infatti, è proprio questa la situazione potenzialmente più pericolosa delle altre, in cui l’adolescente prova un po’ di tutto in modo molto superficiale, senza scegliere e senza impegnarsi; per cui emerge un quadro di identità confusa e dispersa, tipico, ad esempio, di molti giovani tossicodipendenti. Conseguentemente per Marcia l’adolescenza è caratterizzata da un processo di integrazione che si delinea in una percezione di sé coerente e unitario delle novità provenienti dal corpo, dalla mente e dall’ambiente sociale. Ma quando questo ambiente pone l’adolescente di fronte a dei modelli di riferimento che lo disorientano, cioè non gli consentono di individuare la stella polare che lo aiuti a comprendere ed a perseguire coerentemente il proprio processo di crescita come cittadino, come membro attivo di una comunità democratica, allora si affermano quei cortocircuiti relazionali che hanno come principale conseguenza la dispersione sociale, l’incapacità di affermare la propria identità, perdendo il senso del vivere e di fatto non permettendo il riconoscimento di quei valori che vengono a costituire la stella polare da seguire.

Significato e funzione del valore morale.

Il valore morale è ciò che acquisiamo dal vivere quotidiano e che si integra con le norme o modalità di comportamento che ereditiamo dal modello culturale e dalla realtà sociale di appartenenza. Un valore è centrale per l’individuo quando viene interiorizzato nel proprio Self, contribuendo alla personale auto-definizione e apportando un senso alla propria identità.  Secondo tale prospettiva, risulta evidente che i valori apparterrebbero al mondo interno; tuttavia, la presenza di una correlazione positiva tra valori percepiti come personalmente centrali e valori percepiti come culturalmente importanti suggerisce che le costruzioni sociali di priorità valoriali siano basate sulle concrete esperienze interpersonali.

Significato e influenza sociale del nichilismo.

La problematicità del sociale è stata testimoniata dall’opera e dallo scenario del nichilismo che ha svelato con profondità attraverso l’opera di Dostoevskij. Scrittore universale, destinato a influire non solo in Russia ma su tutta la letteratura occidentale, nei personaggi e nelle situazioni esistenziali dei suoi romanzi — specialmente Delitto e castigo (1863), I demoni (1873) e I fratelli Karamazov (1879-80), dando forma artistica a intuizioni e motivi filosofici che anticipano esperienze decisive del pensiero novecentesco, prima fra tutte quella del nichilismo, forma russa dell’ateismo. L’esposizione del nichilismo da parte di Dostoevskij, declinandolo in tante varietà e rappresentandolo in figure concrete, non ebbe come scopo il promuoverlo. La fortuna letteraria della sua opera ne favorì in realtà la diffusione, e contribuì a minare certezze incontestate ed a corrompere ordinamenti stabiliti. A questo proposito è opportuno precisare che è molto importante il fatto che lo squarcio aperto da Dostoevskij sullo scenario nichilista, nonostante la sua categorica condanna del fenomeno in nome di una rigenerazione degli ideali secondo lo spirito evangelico, ha trovato un osservatore entusiasta in Nietzsche.

Nietzsche ed il nichilismo.

Come scrive Costantino Esposito in “Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca”:

“Il nichilismo oggi ci parla in una maniera inedita: non è più (solo) l’invito al dubbio e allo scetticismo, ma è come una voce che nasce, ecco il punto, dall’interno di noi. È con la nostra stessa voce più intima che esso si fa sentire, come se uno si trovasse in un deserto – non per mancanza di relazioni o di scambi, ma nel deserto del senso, lì dove non vige più il silenzio, ma al contrario il chiasso di tante voci che si sovrappongono e si confondono, rischiando di non dire più niente: almeno niente di decisivo per la vita e le cose stesse sembrano non dirci più il loro senso. Allora nel deserto può venir fuori il nostro grido – un grido afono il più delle volte, ma che noi udiamo bene, sappiamo bene –, la richiesta di un perché dell’essere, della nostra stessa esistenza. Questa richiesta di un perché che faccia vivere, inibita dalla cultura nichilista perché ritenuta irrealizzabile e incompibile, non è una riflessione aggiuntiva o opzionale rispetto al vivere degli esseri umani, ma “è” questa stessa vita.” 

Conclusioni.

A partire dall’esperienza dolorosa della crisi sanitaria del covid/19, dall’inevitabile e conseguente crisi economica e dalla guerra russo-ucraina, si è imposta la necessità di rifondare la convivenza umana su valori, la cui messa in pratica permetta di realizzare un modello sociale dove ognuno trovi le certezze di una vita pacifica e dignitosa, in cui al centro di tutto deve essere  posto l’uomo, inteso come soggetto che si predispone ad una convivenza partecipativa e rispettosa gli uni degli altri. Ma quali valori possono permettere la realizzazione di questa auspicata nuova realtà comunitaria? Ritengo che non dobbiamo sottovalutare l’importanza della nostra carta costituzionale che, tuttavia, contiene un tesoro immenso di valori, di criteri operativi, la maggior parte dei quali non sono mai stati concretizzati. Ma all’ora come possiamo dar luogo finalmente a questo tanto auspicato processo di democratizzazione del nostro paese? Edgar Morin, nell’intervista del 14 Settembre scorso, ha posto l’accento su la categoria dell’improbabilità, intesa come ciò, di fronte a quanto viene percepito come conclusione nefasta della nostra società, costituisce in effetti quella opportunità insperata per realizzare la stessa cosa che in questo momento può avere solo i caratteri di un’utopia, di un sogno che inevitabilmente si scontra con la crudezza della realtà concreta. Per questo motivo, nel mio precedente scritto ho voluto portare l’esempio di Nelson Mandela, il quale dopo 27 anni di detenzione in un carcere di massima sicurezza, viene liberato ed addirittura potrà essere eletto Capo dello Stato della Repubblica del Sudafrica. Questo esempio deve essere motivo, per ogni persona, nell’essere fiduciosi, attraverso il proprio costante impegno, di realizzare i sogni che sono presenti in ogni essere umano, fino a quando ciascuno sarà in grado di testimoniare la propria voglia di vivere.

Prof. Alfio Profeti

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